Per gran parte dell’umanità non è un argomento importante. Eppure in questa parte di mondo non hanno in mente niente altro. I palestinesi arrabbiati perché gli tolgono lo spazio e avere un agnello da 20 kg costa sempre di più. Ma poi ci sono i ladri di terra, che invece non hanno questa preoccupazione, nonostante scorazzano in giro con tutta tranquillità. Sembra che si occupano di pecore come se fossero in nord Europa, dove si pascolano le pecore per la lana e non per il latte e la carne. Quando abbiamo visto le pecore uscire dall’outpost ci siamo mossi in giù senza aspettare che salisse, così siamo stati molto più vicini: ebbene le pecore non hanno tette gonfie mentre i palestinesi devono mungere le pecore prima di uscire per alleggerirle un po’. Quindi non lavorano per latta, yogurt e agnelli! I coloni non sanno che la lana in questi posti caldi è mescolata con pelo e non si riesce a filare, se non per un prodotto di pessima qualità?


Credo che non gli interessa proprio. Uscita palestinese: dalle 6,30 alle 9,30. Uscita dei coloni: dalle 9,30 alle 12,30! Già l’orario non fa pensare ad una attività seria. Per giunta con cambio dell’addetto, a metà mattina. Il primo con il mitra a tracolla ha chiamato per il cambio, che è arrivato su uno strano fuoristrada. Il secondo non è armato. Sembra che la nostra presenza li ha tenuti abbastanza lontano dalle case, anche una ragazza della famiglia scende a filmare. Comunque girano tutto intorno alla casa. Nel pomeriggio escono verso le quattro. Ieri invece erano usciti molto più tardi per rientrare proprio al buio. Alle quattro che accompagna le pecore è proprio un ragazzino, non come i due del mattino, lo stesso ragazzino di qualche giorno fa, si vede subito che è interessato ai due stranieri che lo osserviamo. Comincio qualche domanda: Ti piace questo lavoro? Chi ti paga? Da dove vieni? Ti mandano solo a nuocere i palestinesi? Non risponde mai, comunque gira abbastanza a distanza, fino a che scende dietro della casa dove siamo noi, verso Sheb al Bottom. Anche di là c’è una casa isolata, subito chiamano il nostro ospite, chiedendo che i volontari che siamo qui vengano mandati da lui. Via di corsa scavalcando fili spinati o attraversando buchi improvvisati, in quello che sono le recinzioni un p0′ fasulle dei palestinesi. Un caffè? Certo grazie.


Ma il ragazzo con le pecore si tiene a distanza, fino al momento di rientrare a casa. Allora si avvicina e finalmente parla, poco inglese, anche se sicuramente ha capito quello che avevamo detto, però conosce l’arabo e ha una maglietta con scritte in arabo. Questa terra è di Israele, i palestinesi devono andarsene in Arabia Saudita! Com’è, gli chiedo allora io, avete un catasto conservato da Dio? Ma di dove sei, certo non sei pastore figlio di pastori. Ma non me lo dice. Eppure è un ragazzo gentile e amichevole, niente a che vedere con i bulli arrabbiati che di solito si vedono in giro. A un certo punto mi spiazza, dicendomi: perché non vieni a casa a trovarci? Mah non penso che i palestinesi sarebbero contenti….. Però poi comincio a pensarci….. Se trovassi gente con cui si può parlare, vorrei chiedere perchè, se i palestinesi vengono cacciati perchè è area di esercitazione militare, voi vi impiantate qui. Qualcosa non quadra. Lo dico al nostro ospite: è molto scettico, dice che l’ultimo che ha creduto all’amicizia possibile con dei coloni è stato preso a bastonate. Eppure, il fatto che sia così giovane e parli arabo, mi fa pensare a una famiglia appena arrivata da un paese arabo, quindi sefardita e non ashkenazita, come quasi tutti i coloni. Quindi che ha vissuto con gli arabi, quindi che non deve per forza diventare ultrasionista. Al mattino del sabato non escono, rispetto della religione o rispetto della pigrizia? Invece uno strano fuoristrada gira dappertutto a ricordare che sono i padroni.


Cambio posizione, sono con una australiana vicino alla frontiera con il ’48. Poco dopo Sussya/colonia. Ci sono vicini un paesino palestinese e una colonia con villette a schiera stile svizzero. Noi siamo in una casa isolata, pecore e poco pascolo per il nostro ospite, ma poco più in là vediamo un gregge di oltre cento pecore che dopo avere mangiato dappertutto, si avvia al villaggio svizzero.
Intanto chi ci ha sostituito, si trova l’uscita pomeridiana delle pecore. Il ragazzino gentile è stato rimpiazzato da tre bulli che non si lasciano intimidire dalla presenza dei miei due colleghi e scorazzano tranquilli vicino alle case. Io e l’australiana dobbiamo cambiare di nuovo, per un posto vicino a Sussya dove stamattina i coloni sono venuti a minacciare con sassi e bastoni. Ci sono tanti parenti, c’è pecora bollita con riso, una leccornia. Al mattino gira la polizia a controllare, non ci sono minacce. Ma dov’è l’outpost? Qui davanti, ma non siamo vicini a Yatta? si è vero, dicono ma giocano tra i confiini dell’area B e area A, e si fanno sempre più vicini.
Ricordo 15 anni fa, sembrava che i coloni, coscienti di stare rubando terra, erano intimoriti, si costruivano subito recinzioni intorno ai loro insediamenti. Ora si sentono fortissimi, spadroneggiano e basta, forti del governo e del sostegno internazionale. Intanto sulle nostre teste continuano a passare i caccia che vanno a bombardare Gaza.
Aggiungo questo scritto, poesia sui roghi intorno a Gerusalemme, senza pensare a colpevoli. Certo piantare pini qui è pericoloso. Certo avere a disposizione tutti i caccia per bombardare, ma poca roba per contrastare il fuoco…… E poi per contrastare i fuochi appiccati da loro alle tende degli sfollati, che facciamo?


Com’è crudelmente poetico che le foreste di pini, seminate non dal tempo ma dalla tirannia,
ora ardono come una verità a lungo taciuta.
Piantati dalle mani dell’occupazione, questi alberi alieni hanno messo radici sulle rovine, non per guarire, ma per nascondersi.
Crescevano dove un tempo sorgevano case palestinesi, dove un tempo le risate echeggiavano tra gli uliveti, ora sepolti sotto un silenzio importato.
Non si è trattato di un incidente della natura, ma di una cancellazione deliberata, un cimitero di verde, destinato a soffocare il ricordo di centinaia di villaggi, ripuliti etnicamente, i cui nomi sono stati cancellati dalle mappe, ma mai dalla memoria.
Eppure la terra ricorda. Il vento, insolente e libero, porta braci come messaggi. Le fiamme danzano con furia, non a caso, ma con uno scopo preciso, come se il suolo stesso si ribellasse alle menzogne che gli vengono imposte.
Israele può esercitare il potere – armi, muri, mappe ridisegnate con arroganza – ma non può comandare il vento, né mettere a tacere la cenere che si leva come una preghiera dalle ossa degli sfollati.
Persino le foreste, complici involontarie, ora cospirano con la giustizia. Ciò che è stato piantato per nascondere ora brucia per rivelare – che nessun albero può sradicare la verità, né nessun fuoco può consumarla.