Abbandono il mio gruppo, cerco l’autobus per Betlemme. Il primo dice che si ferma al muro, per la città quello dopo, il 231. In uscita nessun problema, a Betlemme invece i taxisti mi assediano, si vede che ho l’aria del turista danaroso, “dai ti porto io”. Ma c’è il servizio pubblico, so che parte pochi metri più avanti. Poi spiego a uno dove devo scendere, “ah si” dice, ma quando abbiamo i sette passeggeri e si parte, sale un altro autista ed evidentemente non viene ragguagliato perché mi scarica in centro e devo prendere un altro taxi collettivo per tornare a destinazione, anzi siccome il mio Maps si sconnette, un ragazzo palestinese con due bambini e moglie israeliana, una bellissima famiglia, mi porta in macchina per i cento metri che mancavano. Trovo quattro ragazzi, tutti americani. Un po’ di chiacchiere, poi scendo in centro, dove a ottobre ’23 avevo lasciato un mortorio, con tutto chiuso. Ora sembra tornato il casino abituale, bancarelle dovunque e gente che grida. Però il mercato vecchio ha ancora moltissimi vuoti, sembra che non si riprenderà più. Abbracci e tanti thè e caffè. Nel pomeriggio un allarme per soldati che bloccano un’area; scopriremo che hanno arrestato due ragazzi.

La mattina tocca a noi il monitoraggio dei check point all’ora della scuola, per cui partenza alle sei due vanno al check point 56, quello che dà su Shuada Street e da cui passano scolari e insegnanti per la Kurtuba School, e due siamo al check point 160, quasi di fronte alla Ibrahim mosque.
Come si fa a vivere intorno a un check point? Quante volte lo devono attraversare? Vediamo bambinə piccolə che vanno a una scuola elementare dentro, ragazzə che vanno a una scuola superiore fuori. Un uomo con la macchina fa la spola per accompagnare in su e in giu. Insegnantə anche loro in entrata. A un certo punto un trambusto, ci è sfuggito qualcosa, degli uomini corrono a una macchia che scappa, altri se ne vanno con calma. Poco dopo un uomo ci avvicina, “hanno arrestato mio zio e due ragazzini”, per piacere andate a vedere. Andiamo, la ragazza che è con me va in agitazione, ma viene lo stesso. Si rifiutano di dirci niente. Però restiamo lì davanti finché non viene una jeep a caricarli. Telefoniamo subito a Badeea, è il più vicino che può aiutare. Più tardi attraverso le foto riusciamo a identificarli. Sembrano sempre soprusi abbastanza gratuiti.




Comunque entriamo al mercato, dal check point della moschea, dove hanno sempre il problema della religione. Se dicessimo musulmani ci bloccherebbero, buddhisti, dice la mia amica che è di famiglia vietnamita, allora potete entrare. Al mercato stanno cominciando ad aprire. Incredibilmente il mio barbiere è sveglio, e sta facendo sedere uno che però si alza subito, prima io. Intanto ci raggiungono gli altri due, e il mio vecchietto è tutto fiero di dire da quanti anni mi conosce.
Entrando dal check point mi rendo conto di come abbiano sventrato case antiche per farsi la strada più larga a solo loro uso.


Una cosa tristissima: salgo sulla collina di Tel Rumeida a salutare quelli di Youth Against Settlements (Issa non c’è, è ancora in America), e non mi festeggiano, mi ricordano che il 7 ottobre, andando a cercare Issa che però era stato arrestato per fargli un bel pestaggio, incontriamo una pattuglia di soldati che va crescendo man mano, ma prendiamo alla leggera che si stanno portando via il ragazzo che ci ha accompagnato, e non abbiamo avvisato nessuno. Non vedevano l’ora che tornassi per rinfacciarmelo, lui pestato e sua madre disperata che lo dava per disperso, e noi che non cerchiamo nessuno per farglielo sapere. Mi hanno fatto sentire un verme.
L’accordo con Mohanned è che faremo la pace quando salirò a cucinare per loro.
Intanto avevo trovato lì un pranzo con una strana comitiva, metà francesi e metà inglesi, portati lì da un giovane israeliano di “breaking the silence”. È una organizzazione di ex soldati ravveduti che raccontano quali soprusi hanno fatto durante gli anni di militare.