Palestina aprile-maggio 2023


22 aprile Sono rientrato in Palestina, di nuovo usando il sistema “pellegrinaggio”. Ma al Ben Gurion ho scoperto che alle 17 del venerdì hanno già cominciato lo shabbat, nessun treno, nessun bus, niente ricarica telefonica. Ho pensato come sarebbe bella questa interruzione di ogni attività anche con militari e coloni. Ma quelli no, hanno un cavillo biblico che dice che possono rimanere attivi se sono in pericolo di vita (particolarmente evidente quando bastonano le pecore palestinesi a Masafer Yatta!) Solo taxi, e con una coda di almeno un centinaio di persone. Piuttosto passerò la notte in aeroporto! Ma mi sento con Neta, che è a Nablus per l’Eid, e trova un’amica che mi può ospitare a Tel Aviv. Avevo giusto davanti una stranezza: un bus gratuito per Tel Aviv. Detto e fatto salgo sul bus e chiamo l’amica. Pronta a ricevermi se arriverò. Dopo il bus ci vuole un taxi, ma arrivo a trovare un po’ di cena e un letto! Tel Aviv è proprio una città all’americana. Oggi taxi per la stazione dei bus, bus per Gerusalemme, bus per Betlemme e di nuovo taxi per al khalil. È ancora festa ma qualcosa c’è, a Gerusalemme dove ricarico il cellulare e cambio soldi, e a Khalil dove ricomincio i caffè. Il produttore di humus e felafel, mi chiede di aspettarlo, chiude la baracca e pretende di accompagnarmi in un incredibile dedalo di viuzze antiche con decorazioni, aperture strane e archi. È un percorso che taglia le gambe, sempre su e giù a ridosso della moschea di Abramo. Ogni volta che risaliamo è perché in fondo c’è un check point. Così è chiusa tutta l’area della moschea, un palestinese deve farsi polmoni e gambe buone. Un pezzo è senza check point, perché i palestinesi devono camminare su un viottolo laterale separato da griglia, dove i coloni buttano i loro rifiuti. Penso con terrore a come vorrebbero fare chiusure simili anche ad al Aqsa. Anche qui, prima, sembrava impossibile, ma poi lo hanno fatto, è bastato un pazzo armato di mitra e 30 morti palestinesi. Per i ministri Ben Gvir e Smotrich, quell’uomo è un eroe! Ero venuto ad al khalil per l’uscita dei coloni del sabato pomeriggio, ma oggi giretto brevissimo di pochi coloni, nessun problema. Ritrovo un po’ di amici al mercato e alla fine mi fermo a Youth Against Settlement. Essendo qui per l’Eid ho anche trovato I., il contatto ISM a al Khalil. Mi ha raccomandato di non mangiare nel Suk, perchè metteva sua moglie, ottima cuoca, ai fornelli, per una specie di Makluba, con pollo fritto e riso e verdure “rovesciate” in piccole dosi, con sempre yogurt e verdure. Ottimo pasto pomeridiano. Poi mi ha portato a vedere la sua serra, dove per ora ha un impianto di cetrioli, piantine che deve fare innestare perchè altrimenti si ammalano. Mai sentito innesti su ortaggi! Abu Sara 23 aprile. È l’ultimo giorno dell’Eid, i bambini sono ancora a casa da scuola, mentre nelle campagne ferve una grande attività. Durante il Ramadan ha piovuto molto, c’è verde dappertutto. Trovo la famiglia di Jamal, a cui avevo promesso di tornare in primavera, in un uliveto che non conoscevo, un altro posto vicino a insediamenti militari e senza strade di accesso, solo sterrati da fuoristrada. Come loro, vedo dappertutto famiglie, trattori, pick up. La terra sotto è rimasta umida, prima di passare con l’aratro si strappa tutta l’erba per portarla alle pecore, che non vedranno più verde fino all’autunno. Jamal, Sanaa e i quattro maschietti di casa, c’è anche Amer, il maggiore, che lavora nel ’48, pare bracciante in un’azienda di patate, sono lì che strappano erba o zappano intorno agli ulivi. Quando il cassone del pick up sarà pieno ci ritiremo. A casa le ragazze ci aspettano con il pane caldo, yogurt, frittate, olio e zaatar. Ieri sera chiedevo a Issa perché non ci sono più le iniziative non violente che mi avevano appassionato 10 anni fa, il blocco dell’autostrada per soli coloni, l’occupazione di un supermercato per le colonie, e poi la costruzione volante del villaggio bab al shams, e di altri due. In quelle occasioni si era mosso un impressionante coordinamento dei comitati popolari palestinesi, con partecipazione un po’ di tutti. Mentre Neta spiegava che per vicende personali un po’ tristi si era ritirato uno dei principali leader, Issa ha una spiegazione più completa: il problema è nell’Autorita Palestinese. Si sono comprati tutti. Hanno distribuito posti di lavoro o anche solo stipendi senza un vero lavoro. Gente che non si poteva permettere di tenere il caffè in casa per ricevere qualcuno, ora ha costruito case per i figli. Sarebbe sempre l’autorità Palestinese che garantisce i prestiti delle banche, pur di mettere a tacere eventuali oppositori. Così abbiamo le case nuove e le macchine nuove. Sembra che temevano di più la capacità di organizzazione dei comitati di quanto non temano ora le cellule armate. “Vedi in quanti posti le manifestazioni del venerdì sono finite”. Obietto che però a Nabi Saleh, anche senza manifestazioni organizzate l’esercito ogni tanto ammazza. Certo, l’occupazione non è affatto finita! La violenza dei coloni aumenta quella dell’esercito anche, con questo governo raggiungiamo il massimo. Ma che giro contorto deve esserci tra AP, governo sionista e banche, e in che baratro trascinerà le aree occupate, con gente indebitata che non può ribellarsi a niente. Ieri è arrivato un filmmaker americano/ebreo con il cameraman che ha ripreso Issa buttato a terra dai soldati, forse un mese fa. Partecipava anche lui alla discussione sull’AP, per ora ha pronto il trailer di un film documentario sull’occupazione. Credo che stia facendo un lavoro molto interessante, che ci farà conoscere. Abu Sara 24 aprile Oggi lascio Jamal e i suoi con la promessa di tornare settimana prossima. Jamal mi accompagna alla prima rotonda nella direzione per At-twani, e la prima macchina che passa mi dà un passaggio fino a destinazione. Trovo Basil, una ragazza israeliana, un fotografo sudcoreano venuto con un gruppo BDS, e finalmente Jan, l’unico ragazzo ISM che c’è per ora. Pare che sia il giorno in cui partecipa un gruppo di israeliani. Ed ecco arrivare due macchine, 5 ragazzi e 5 donne di mezza età. Ci avviamo con Hafez al suo terreno. Prima un po’ di spiegazioni, poi al lavoro: c’è da togliere erbacce intorno a alberi che i coloni sono già venuti a tagliare varie volte, compresa la volta in cui, qualche mese fa, gli hanno spaccato le braccia a bastonate. Siamo davanti a Mac Mahon, il pezzo nuovo che ha ancora le case in vendita a caro prezzo. Oggi Hafez ha molto aiuto, più o meno utile, ma molto simbolico, sicuramente non ci saranno attacchi. Tornando ad At-twani, vedo arrivare Sami con degli italiani, due di operazione colomba e due visitatori supplementari. Sami mi sgrida che a novembre non lo ho cercato. Quando facciamo un giro al confine della colonia, viene fuori che nella delimitazione della “firing area” (zona per esercitazioni militari, con ordine di demolizione per i villaggi presenti) è compreso un pezzo della colonia, ma quello, guarda caso, non ha ordine di demolizione. Sempre nella passeggiata ci mostrano un muro di pietre che i palestinesi hanno costruito lungo la strada di confine, anche se è stato parzialmente distrutto, le pietre sono sempre lì e delimitano lo stesso! Intanto i nuovi amici israeliani hanno lanciato una pagina Facebook, Instagram e Twitter, per i lettori ebrei, sulla situazione di Masafer Yatta, se continueranno e avranno visibilità sarà molto importante. Una cosa scritta da loro e di cui non ero cosciente, è che gran parte della zona C, stabilita negli accordi di Oslo, e sotto il pieno controllo israeliano, avrebbe dovuto passare all’Autorità Palestinese. Bella l’immagine che accompagna le loro pagine, una presa in giro della “firing area” Dopo il solito riso e pollo (questa volta alle 16), Sami con una signora francese e altri due amici locali mi accompagnano a Khalet ad Dabaa. Jaber mi accoglie, ma i palestinesi hanno voglia di chiacchierare, così mandano me a illustrare il “paese”. Uno dei segni della resistenza di queste poche famiglie è la quantità di fiori che abbelliscono il luogo, oltre alle scritte sui muri. I palestinesi si stavano raccontando di qualche bravata che sono riusciti a fare contro piccole pattuglie di soldati. Batte sempre un vento impetuoso, ma non è freddo come a novembre. Abu Sara 28 aprile Penso a quando ho messo un piede nella direzione sbagliata davanti alla casa di YAS, e ho sentito il soldato mettere il colpo in canna intimandomi l’alt. Mercoledì sera invece una trentina di giovani coloni con le loro kippa e i ricciolini, passavano tranquillamente davanti all’entrata di YAS, e nessuno può dire niente a questa disparità di trattamento, così tipica di un sistema di apartheid. Giovedì mattina ho finalmente messo mano al seghetto per uno degli enormi ulivi del giardino. La scala è pesantissima e fuori misura, il seghetto taglia poco, ma alla fine un po’ di aria gliela ho data e un po’ di secco è stato levato. Per venerdì ho in mente di unirmi agli israeliani per tre manifestazioni. Ma Diana, la nostra Palestinese, fa quasi una scenata, lei con quelli non ci andrebbe mai, saranno bravi ma sono sempre dalla parte sbagliata. Sono venuti dall’Europa a prenderci la terra, è facile ora far finta di appoggiarci. Ci siamo trovati a Bir Zeit, dove ha un appartamento Dave, ragazzo americano che studia arabo all’università di Bir Zeit. Comunque vado, anche tra gli israeliani ho degli amici, e poi è troppo comodo spostarsi in macchina, riuscendo a seguire più di una manifestazione in un giorno. Tra l’altro, vista la difficoltà a muoversi di venerdì, la nostra amica ci viene a prendere sotto casa. E così si comincia alla rotonda Zaatara, quella dove se si ferma un Palestinese gli sparano, perché siamo proprio all’entrata di una colonia, e ci sono torrette e soldati armati a non finire. C’è di nuovo il gruppo “l’occupazione nell’occhio” con cui ero stato a novembre. Saremo poco più di una ventina, con i cartelli “stato di apartheid”, “Occupation kills” e “Palestinian lives matter”. Come l’altra volta e evidentemente tutti i venerdì in cui non ci sono stato, i palestinesi fanno il segno a V e i sionisti alzano il medio. Quando si finisce, una bella idea, andiamo a mangiare insieme a Huwwara. Bella accoglienza: c’è un palazzo non finito occupato dall’esercito, con una decina di fucili puntati su chi passa! Comunque si mangia arabo, con piatti vari, hummus, yogurt conditi in vari modi, sottaceti, frittate e beninteso felafel. Così poi saliamo a Beita con la pancia piena, e ancora in tempo prima della preghiera. L’altra volta non li avevo visti, forse erano stati a pregare dentro la tenda. Poi si parte, sparsi nella collina in mezzo agli ulivi, con i soldati che ci fronteggiano sulla collina di fronte. Ci lasciano avvicinare fino a far partire dei grandi fuochi, beninteso di copertoni, bruciano in fretta e fanno più fumo dei lacrimogeni che cominciano a pioverci addosso. Ma il vento è abbastanza a nostro favore. Di mezzo, chissà da dove viene, un grosso cinghiale attraversa il campo correndo, accompagnato da urla di incoraggiamento. Qualche tiro di fionda, ma siamo troppo lontani. Piano piano si risale, noi di qua loro di là. Ma perché non mollano quella collina? Hanno cacciato i coloni, di recente hanno provato a risalire, ma solo con le bandiere, non per rioccupare i caravan. Perché non li portano via e non liberano la collina? Torniamo alle macchine, ma questa volta siamo solo noi quattro, si scende a Sheik jerrah. Oggi è la manifestazione organizzata dai palestinesi, e quindi sull’altro lato della strada ci sono i sionisti, anche loro con le bandiere e un megafono, per disturbarci, con un bel cordone di polizia a tenerli a bada. I poliziotti sembrano meno minacciosi dei soldati, non hanno il casco, il manganello nello zaino anziché le bombe, ma anche loro hanno il mitra in mano. I sionisti rompiscatole ci seguono sempre nei giretti nel quartiere, ma almeno si stancano prima di noi. Cerco nei miei contatti per Gerusalemme, ma non c’è nessuno questo pomeriggio e allora torno a khalil. Brutta fine di giornata, torno stanco della giornata, infreddolito con un vento gelido che ci ha accompagnato tutto il giorno, e devo attraversare il check point per entrare a Tel Rumeida. “no, aspetta”. Chiamano i loro superiori, “fai vedere di nuovo il passaporto, no non facciamo più entrare gli stranieri, solo i Palestinesi”. Infatti un po’ di persone entrano, anche gente che mi conosce. Ho dentro il mio zaino, dico. “se lo faccia portare” Ma io non entro, al cambio turno, quello nuovo mi manda via, finalmente aprendo la girandola alla rovescia. Che faccio, oltre a tremare di freddo? Comincio a sentire gli amici, prova un altro check point, ma sarà uguale se hanno ordini superiori, allora c’è un ostello vicino. Ma prima di andare arriva un altro consiglio, prova il check point della moschea. È vero, mi dico, dalla moschea un palestinese non può andare alla sua zona, e il posto è più per stranieri e turisti, infatti passo senza quasi che guardino il passaporto. Ma poi devo arrivare nella zona Palestinese. Altri quattro soldati in guardiole chiedono dove vado e vogliono vedere il passaporto. L’ultimo però si preoccupa per me, da lì va in zona mista, stia attento! Insomma ho provato anche io a venire respinto a un check point e dover fare un lungo giro per entrare da un’altra parte, e questo è il sopruso abituale sui Palestinesi. Evito di avvicinarmi a dove mi hanno respinto, e così salgo per la collina dalle case che sono intorno e sopra alla famosa Kurtuba school, dove ogni tanto si va a controllare cosa succede. Qui sono appena arrivati tre ragazzi catalani, quindi o loro non sono stranieri o è me che non volevano. Abu Sara 29 aprile Salire a Tel Rumeida è vietato a tutti gli stranieri, almeno per ora; salgono solo i palestinesi residenti, che sono tutti numerati. Anche altri hanno dovuto fare il giro dalla moschea, come me, ma alla moschea di Abramo ci sono cancelli enormi che vengono chiusi alle 21, la moschea, a cui è già difficile entrare visti i check point e metal detector da attraversare, dopo quell’ora non è più accessibile per la preghiera. Oggi è il giorno dell’uscita dei coloni per il tour nella città vecchia. Qui sono capitati dei turisti che potrebbero fare i volontari, saliti come me dalla moschea, si sono incontrati per caso (un irlandese, una tedesca e una ungherese) all’ostello che mi avevano indicato ieri sera, è proprio nel mercato, e trovo che alloggerà lì anche Dave, l’americano di ieri che è venuto a khalil con dei compagni di corso. Scendo al mercato verso le due, per vedere se ci sarà il tour dei coloni. Oltre ai soliti incontri, ci sono quelle di EAPPI, venute pure a seguire il tour (è una organizzazione di volontari legati alle chiese protestanti). Con loro un uomo palestinese con cui ci rendiamo conto di conoscerci da tempo, è sempre stato con i volontari in giro, e lì capita anche Dave. Lunghe chiacchiere in attesa del tour, arrivano anche dei fotoreporter. Ma non succede niente. Mentre le ragazze si fermano per un thè, noi decidiamo di andare avanti accompagnando alla moschea Dave che non è mai stato qui. Il mio amico palestinese è un vulcano di racconti (è professore) e di scambi con gli stranieri che incontriamo, oggi ce n’è tanti, anche se Leyla si lamenta che sono di quelli che non comprano niente. Tra gli incontri, quello più vicino ai nostri pensieri contro l’occupazione, è una coppia di madrileni, dove però lei è marocchina e lui palestinese! La moschea ha una novità anche per me: su un lato di questo magnifico monumento c’è un obbrobrio che da noi sarebbe vietatissimo realizzare, un’ascensore in una colonna metallica seguita da un ponte che accede alla moschea! Invece arrivando su Shuhada Street mi rendo conto che non c’è più il bordo di cemento che separava il passaggio dei palestinesi, stretto, dal resto della strada per gli ebrei. Qui pare che le pressioni internazionali con la possibile accusa di apartheid abbiano fatto effetto; anche se, poco più in là, c’è ancora la cancellata alta con la stessa divisione. Così ci accorgiamo che il tour sta per cominciare, direttamente nella città vecchia. È il percorso da cui di solito escono. Arrivano di corsa tre jeep di soldati, e cominciano ad arrivare i coloni. Avvisiamo i fotoreporter della novità e torniamo indietro ad aspettarli. Attraverso angoli suggestivi della città vecchia, ecco il gruppo, saranno una cinquantina, con altrettanti soldati, davanti e dietro, che fanno largo in avanti allontanandoci continuamente. Procedono lentissimi, ogni tanto lasciano passare qualcuno, più spesso spingono via. Mentre sono fermi a un incrocio tra viuzze, un incontro pittoresco: un grosso gruppo di musulmani inglesi, sono di tutte le tonalità tranne il bianco, e vestiti ognuno secondo la sua tradizione. Intanto i coloni si stanno raccontando le loro menzogne su Hebron. Eppure anche nelle loro biblioteche ci sono libri con l’elenco delle famiglie palestinesi che nel ’29 nascosero gli ebrei per sottrarli alle violenze. E sicuramente raccontano che Abramo appartiene a loro e non a tre religioni, e che si riprenderanno tutta la città vecchia. I bambini si divertono, sembra come un circo, ridono anche di questi soldati, anche ragazze, carichi di armi, di bombe, di radiotelefoni. L’ultimo, come in una spedizione di guerra, ha anche nello zaino una barella pieghevole, evidentemente un ferito grave è il massimo che abbiano pensato! Sono ridicoli anche per le differenze enormi di altezza e di larghezza, quelli che portano le bombe sonore, un ragazzo e una ragazza, sono ambedue piccoli e larghi, con di fianco uno altissimo e magrissimo. In qualche modo il tour finisce, e io risalgo a YAS dalla moschea, a trovare una porzione di Maqluba che mi hanno conservato. Abu Sara 2 maggio Oggi è tutto tranquillo. Addirittura, uscendo da Tel Rumeida al check point di Bab al Zahwya, un soldato gentile mi avvisa che quel passaggio è chiuso in entrata, dovrò usare un’altra “border”, una frontiera, non un altro check point, comunque era una comunicazione gentile! Quando arrivo a Yatta e scendo dal service pensando di cercarne uno per al-Karmel, subito mi apostrofa l’autista di uno di questi vecchi service, di quelli relegati ormai alle tratte minori, chiedendo se vado a At-twani. Ormai è diventato il posto degli internazionali, basta vedere un ajnabi (uno straniero) per sapere che è diretto là. Veramente pensavo al service, “ma no ti porto io per 40 shekel” non ci sto, allora 30, e va bene, portami. Le portiere mezze sfondate, i sedili peggio, ma anche la meccanica lascia a desiderare. Comincia un rumore preoccupante alla ruota destra, probabilmente il giunto di trasmissione. “Mi dispiace, ma non ti preoccupare, sta lì fermo che ci penso io, e cerca un amico che per i 30 shekel mi venga a prendere e mi porti.” ma sei matto, sono troppo pochi soldi”. L’autista è sempre più dispiaciuto, ma gli dico di non preoccuparsi, che faccio come pensavo. Sicuro? Allora mi restituisce i 30 shekel e sono io a dirmi dispiaciuto per i suoi guai, speriamo che ti vada meglio, “inshallah”. Io trovo un service per al-Karmel, e poi vado a piedi, non passa proprio nessuna macchina, ma ci vorrà un quarto d’ora. Ad At-twani è tutto tranquillo, non vedo nessuno, donne che pascolano una con pecore e una con capre, allora salgo da Hafez, sta come sempre strappando erba per un pezzo in cui pianta, alberi intorno e uva da tavola in mezzo. Se gli lasceranno le piante senza venire a strapparle. Mi fermo ad aiutarlo. È il principio fondamentale della resistenza a Masafer Yatta: continuare a coltivare e mettere in coltivazione fino all’ultimo pezzo di terra disponibile, altro che andarsene. Alle tre rientra Sami e mi chiama per andare a mangiare qualcosa con lui. Conferma che tutto è tranquillo e così lascio At-twani e torno a Yatta da Jamal, a pascolare le pecore con i figli. Qui sono sempre beneaccolto, anche se lui è a lavorare nel ’48 fino a giovedì sera. Giochiamo anche a calcio con i ragazzi, guardando le pecore con mezzo occhio, e a pallavolo con le ragazze. Un giovane rientra dal lavoro, viene a salutare e mi invita a prendere un thè a casa sua. Un forestiero qui è una rarità e tutti ci tengono a due parole con me. Passo una giornata intera con loro. Ma oggi la prima notizia è stata la morte in prigione di Khader Adnan. Già pensavo di scendere a Khalil per incontrarmi con uno dell’UNRWA, accelero per vedere se succede qualcosa. Ma chi era Khader Adnan? Nativo di Jenin, esponente della jihad, ha passato almeno 12 anni in prigione, con 11 diversi arresti, quasi sempre senza processo, cioè tenuto in detenzione amministrativa. 5 volte ha dovuto ricorrere allo sciopero della fame, qualche volta ottenendo la libertà. Ma questa notte non ce l’ha fatta. Immediato lo sciopero generale. Ho visto i ragazzi partire per la scuola, ma poi tornare indietro. I mezzi circolano, ma la stazione dei minibus è chiusa. I negozi e le bancarelle sono chiuse. Non avevo mai visto una cosa simile. C’è puzza di gomme bruciate e di lacrimogeni. Un gruppo di soldati è uscito dal check point e fronteggia un po’ di ragazzi, che si tengono riparati da un angolo di strada e si affacciano ogni tanto per tirare un sasso. Salgo verso il centro, c’è una manifestazione per Khader Adnan. Quando torno al mercato, trovo che sono usciti altri soldati dal cancello centrale. Ancora più bancarelle chiudono. Quelle alimentari in fondo al mercato non erano tutte chiuse. I soldati mi puntano un fucile contro. Aho, posso passare? Allora abbassa l’arma e passo. Appena al di là, vedo che proprio si divertono a sparare un lacrimogeno verso dove ero. Un ragazzo velocissimo glielo rimanda con la fionda, corrono come lepri, il vento soffia in qua, anche io non ho scampo, è tanto che non mi prendevo un lacrimogeno in pieno; mi prendono in una bottega e mi danno una cipolla, piano piano passa tutto. I soldati sparano ancora ogni tanto, anche molto più tardi, ma ormai sono rientrati. Quelli dell’UNRWA mi chiedevano se c’è qualche sostegno ai palestinesi, certo niente di istituzionale. Racconto qualcosa, ma hanno anche fretta. Vedremo domani cosa altro succederà. Abu Sara 4 maggio Sono tornato a Beit Ummar. È un paese a pochi km da Al-khalil, un paese agricolo famoso per l’uva e la frutta, ma chiuso da tre insediamenti, per cui rientra nella zona C, a pieno controllo israeliano. Eppure è un paese di 25.000 abitanti, che avrebbe bisogno di espandersi, non di scontrarsi con gli ordini di demolizione. Mi sono messo in contatto con Youssef, che si ricorda delle manifestazioni fatte insieme e dei discorsi sull’agricoltura. Da Al-khalil prendo un bus di linea, che però anche lui non parte finché non è pieno. Io mi siedo a caso, fino a che l’autista non mi fa spostare, sono quasi tutte donne e gli uomini siamo solo i cinque del sedile di fondo. Però non mi ricordo dove sta Youssef, così scendo in fondo al paese e devo poi prendere una macchina per tornare all’entrata del paese. Youssef racconta che c’è stato una specie di accordo con i soldati, per cui ora possono coltivare fino vicino alle colonie. Dieci anni fa ci cacciavano in malo modo dai terreni palestinesi vicino alle recinzioni! Hanno costituito una associazione, al shoroq, con aiuti Oxfam, hanno fatto una strada, hanno portato la corrente in una zona agricola dove lavorano molto e che ha il vantaggio di essere zona B, per cui possono farsi le case lì. C’è un pozzo e una grande cisterna preparata per riempirla con l’acqua del pozzo, ma sono finiti i soldi e non c’è una pompa in funzione! Durante il Ramadan hanno anche distribuito pacchi di aiuto alle famiglie più povere. È una situazione molto diversa da Yatta, qui nessuno va a lavorare nel ’48, nessuno fa accordi con gli israeliani o l’ Autorità Palestinese. Assomiglia di più alla situazione di Masafer Yatta, solo che qui ci sono 25.000 persone. Scopro che una prelibatezza che vedevo nei mercati sono prugnette verdi che raccolgono così senza farle maturare e di cui vanno matti. L’altra cosa che va molto nei mercati sono le foglie di vite, tutti le raccolgono ora che sono tenere e se le conservano arrotolate e infilate in bottiglie. Sono stupiti che un paese con tante viti come noi non usi le foglie per gli involtini. Gli spiego che è una cultura alimentare che comincia dalla Grecia e dai Balcani e va solo verso est. Ma si fanno soldi con le foglie! Youssef chiama poi un amico con macchina per portarmi a vedere le cose che ha raccontato e viene fuori che hanno un’associazione per la vendita nel circuito Fair Trade, e cercano di valorizzare i prodotti tradizionali, coltivano in bio e vorrebbero distribuire in tutta Europa. Quando alla fine li lascio, trovo che l’entrata del paese è stata chiusa dai cancelli dell’occupazione, con almeno tre jeep e un mucchio di soldati di controllo, obbligando i paesani a delle deviazioni lunghe e scomode. Allora mi sa che è peggio di dieci anni fa. Tra l’altro il ragazzo più grande di Youssef a un posto di blocco ha preso una fucilata in un braccio, come oggi che a un posto di blocco a sud di Betlemme un ragazzo è stato ucciso. Abu Sara 6 maggio Beita sembra una cittadina industriale. A parte i soliti soldati dell’occupazione con i fucili spianati all’entrata della città, nel fondovalle vedo una serie di magazzini di ortofrutta, anche di venerdì c’è un via vai di muletti con pedane di aglio o di patate o di limoni… E un fianco di collina è pieno di cave di pietra, questa pietra che decora tutte le case palestinesi. La manifestazione parte dopo la preghiera, oggi all’ombra dei pini che ci sono quassù. Soffia un vento da sudest, uguale al nostro scirocco. Fa un gran caldo e poco a poco siamo immersi in una foschia fatta di sabbia. I soldati non hanno voglia di scendere, lasciano che gli shebab prendano la collina fino a metà, con i soliti fuochi. Finalmente scendono e tirano qualche lacrimogeno, ma ogni volta che arriva un sasso vicino a loro, corrono in su di nuovo. Non fanno una gran figura. Finalmente abbandoniamo il campo e scendiamo a Sheik Jerrah. Anche qui il solito gruppo, i coloni invece sono pochi all’inizio, arriveranno dopo. Il cielo comincia a oscurarsi, l’aria cambia completamente e per sera fa freddo. Mi sento con Ernesto, ragazzo piemontese che studia arabo a Gerusalemme. Mi raggiunge e rimango con lui: così finalmente mi faccio un’idea dei quartieri arabi di Gerusalemme Est. Di casa sta a Shuafat, nel borgo più antico, intorno a cui è pieno di case nuove. Dalla finestra si vede il muro, in direzione di Qalandia. Quelli che erano villaggi arabi, Shuafat, Anata e Issawyia, sono inglobati in un brutto tessuto urbano, e separati tra loro dall’avanzare degli insediamenti dei colonizzatori e delle basi militari. In più c’è il campo profughi di Shuafat, completamente circondato dal muro. I ragazzi lavorano tutti per gli israeliani, ma quando succede qualcosa, come quando in tanti si erano rapati a zero, per non far trovare quello che aveva ucciso un colono, scatta la punizione collettiva con l’annullamento dei permessi di lavoro. Torno a sud, sono con Jamal, i bambini e le pecore, a Jamal è scaduto il permesso di lavoro nel’48, ci vorrà un mese per poter ricominciare. Meno male, lui non sta bene, il trattore è rotto, qualche bambino ha problemi. Intanto sono arrivati nuovi volontari per ISM, due sono a Masafer Yatta, dove c’è stato un assalto dei coloni a un villaggio. E al nord, dopo i tre uccisi di tre giorni fa a Nablus, oggi un’incursione al campo profughi di Tulkarem ha lasciato altri due morti. Anche Tulkarem è una situazione nuova, come è stato nuovo l’assalto al campo profughi di Gerico, che rimane sotto assedio. Sembra che l’occupazione sia un po’ spaventata di questo allargarsi della resistenza. Abu Sara 9 maggio Eccomi nella confusione di Al-khalil. Provo il passaggio dal check Point di Bab al Zahwya, ma non c’è niente da fare, non chiedono neanche dove vado, lo sanno e non vogliono né me né la casa di YAS. Quando però esco, è l’orario di rientro da scuola, e i soldati si divertono a rallentare. Oggi la scusa è un ragazzo con un sacchetto con il pane, il soldato gli dice di non avere visto bene, deve rientrare a farsi controllare, e intanto fuori ci sono ormai una decina di ragazzi e adulti che aspettano il tornello da passare uno per volta. La sera invece ci sono festeggiamenti rumorosi e provocanti dei coloni, avevo visto nel pomeriggio che si formavano gruppetti di coloni, sempre con qualcuno di loro che ha in spalla il fucile mitragliatore. Ora sparano fuochi d’artificio e musica ad alto volume. C’è un grande falò, per fare il quale hanno scassato un po’ dei negozi che sono stati chiusi con la forza dai soldati, e cosi rubare tutte le scaffalature in legno. Sono alle spalle della città vecchia, subito sotto il cimitero musulmano. Avevo dimenticato quanto questo è esteso, ed è un po’ una zona cuscinetto, sotto è vietato ai palestinesi, mentre sopra ci sono abitazioni normali. Per fortuna i musulmani non frequentano i cimiteri come i cristiani, anzi non li frequentano affatto, altrimenti ci sarebbe un altro grosso problema. Qualche giorno fa, nell’area che era stato il mercato di frutta e verdura, vicino alla Moschea, hanno demolito delle antiche costruzioni, è ancora zona Palestinese, ma fino a quando, se possono demolire per ingrandire le loro costruzioni? Nel centro del mercato, c’è la piazza del vecchio municipio, dove c’è il cancello da cui i soldati fanno le incursioni e anche da dove escono i coloni per le loro intrusioni del sabato. Una antica palazzina, con al piano terra una serie di botteghe, pare andare in contenzioso, e comunque i soldati sono già venuti a manifestare le pretese. Palazzina venduta? Palazzina di proprietà dubbia? Ma tutte quelle al di là del cancello le hanno prese e basta, vogliono cominciare a fare lo stesso di qua? Sono di nuovo lì, un uomo con il flex si prepara a salire a tagliare i sigilli messi sulla porta, ma ha in uso una prolunga tutta rappezzata, prima che arrivi la corrente arrivano i soldati, a interrompere l’opera. Piano piano cresce il capannello di persone, sono soprattutto due donne a fronteggiare i soldati. “È casa nostra”, bagnano i fiori lungo la scala di accesso al piano, arrivano due sedie per sedersi sul pianerottolo, ma ci sono anche due soldati. Ai piedi della scala, un tavolino con impilate le bollette pagate di luce e acqua, e una specie di riunione di anziani. I soldati presidiano la zona, ma sono quasi gentili. Poi improvviso, il caos, escono i cattivi, i Border Police, uomini ma anche donne visto che dovranno agire con violenza su donne. Bombe sonore, lacrimogeno di avvertimento, poi veniamo cacciati tutti, ancora bombe sonore e lacrimogeni. Finalmente tutto ritorna alla calma. Pare che il problema riguarderà anche altre case, è Ben Gvir che manovra, cercando di recuperare case che appartenevano a ebrei 100 anni fa. Intanto, mentre su Shuada Street va avanti la festa, nella casa di fianco a noi, io pensavo fosse solo casa di abitazione, ma è vero che è la prima base che si sono fatti qui, una ventina di soldati, partecipa ad un training che però sembra un gioco, alternano una serie di ordini militari, in piedi puntare, in ginocchio, caricare, puntare, a destra, in alto, con delle risate allegre. Cosa sia effettivamente non è chiaro. So solo che è tutto un sopruso. Abbiamo qui anche dei reporter che cercano di seguire la serata, due sono palestinesi che incontro spesso quando succede qualcosa, gli altri erano già venuti con il cineoperatore di Tel Aviv. E fanno una intervista al più giovane che parla buon inglese: sulla paura, ha già avuto una pallottola vicino al piede, con schegge addosso, un suo amico ha perso un occhio, e poi Shireen, con passaporto americano, lavoro per la principale testata araba, e l’hanno ammazzata, ma non ha paura, tutto può succedere, perché siamo palestinesi! Ma intanto è contento della vita che fa! Abu Sara 12 maggio Mi ritrovo da Dawood, alla “tenda delle nazioni”, circondato da insediamenti di coloni illegali, compresa l’ultima costruzione che stanno realizzando: una scuola rabbinica a 100 metri dalla sua terra. Comunque, da quando fa venire gli internazionali (2002) non ha più avuto attacchi dai coloni, a parte un incendio di qualche anno fa che gli ha bruciato un mucchio di alberi, tutti ormai ripresi. Cerca di fare una azienda agricola autosufficiente: l’acqua è tutta raccolta dalla pioggia, la corrente è solo solare, da me vuole aiuto a realizzare un frantoio domestico. È sicuro che farà sempre più fatica ad andare al frantoio a Betlemme, per cui bisogna attrezzarsi. Altro incontro, a Sheik Jerrah, l’anziano Nabil, oggi è in giardino, se così si può chiamare l’ammasso di rifiuti che i coloni gli scaricano dentro. Almeno siamo sotto un bel nespolo. Oggi mi racconta che suo padre nel ’48 aveva un ristorante sul lungomare di Haifa. Lo hanno arrestato e tenuto in prigione 9 mesi quando gli sequestravano il locale, poi distrutto per farne un edificio orribile. Dice che il figlio in questo momento è a Ramallah per aggiustare i denti, chissà se riuscirò a incontrarlo. “Vedi come nel quartiere stanno facendo solo uffici, così per giustificare di volerci togliere da qui. Ma noi abbiamo le carte in regola, non ce ne andremo mai. Il caldo sta aumentando, ma io decido di andare a N’ilin, non ricordavo quanto si scende da Ramallah, dai 750 metri a solo 200, con davanti la pianura e il mare in distanza. N’ilin è famosa per le battaglie contro il muro. Parecchi agricoltori hanno terra dall’altra parte del muro, e vengono raramente autorizzati ad andarci. Torno a trovare Mohammed, dopo così tanti anni. L’anno scorso per la prima volta ha potuto andare a raccogliere le sue olive; io ricordo un’apertura del cancello per fare entrare i palestinesi a raccogliere le olive ma Mohamed no, lui non poteva passare. Come non lo hanno lasciato andare ad al-aqsa nel Ramadan, volevano da lui una dichiarazione d’impegno…… Pregherò a casa, ha detto, ma non mi sottometto. È stupito che sono tornato ed è rincuorato. Qualche osservazione sui movimenti della gente: Alle 12 il bus per N’ilin si riempie di donne che hanno comprato cose a Ramallah, come l’altro giorno andando a Beit Ummar. Alle 4 invece il bus aspetta lavoratori che rientrano dal ’48, al bivio di N’ilin, da dove si vedono una torre e un cancello che va di là. Poi a Ramallah per andare a Nablus non ci sono più autobus, ma solo i Service, e siamo tantissimi, piano piano, a 7 per volta, la coda si smaltisce. Il giovedì sera c’è una quantità di gente che si muove, rientro a casa per il fine settimana? Poi di venerdì non va più in giro nessuno. Non ricordavo la città vecchia di Nablus, è incredibile, ed è tappezzata di foto degli shaid (i martiri) tutti con il mitra in mano. Ci raccomandano di non uscire verso il centro dopo il buio. Una scarica di fucili accompagna la chiamata alla preghiera. Da Gaza festeggiano di avere hackerato il famoso “Iron dome” : l’anno scorso venivano intercettati il 90% dei rockets, ora ne fermano si e no il 20%. Inoltre hanno costituito un consiglio comune della resistenza tra FPLP, Hamas, Jihad e Fatah, si sentono più forti. Sono in un ostello incredibile, tra scale e archi di pietra e soffitti in legno. Ci sono altri, per esempio il sud coreano che era a At-twani, insomma mi chiedono cosa faccio, loro sono più turisti o giornalisti. Racconto, perché uno si appassiona di Palestina e fa l’attivista, beh il risultato è che in tre chiedono di accompagnarmi domani a Kafr Qaddum. Abu Sara 12 maggio Kafr Qaddum: siamo a pochi km da Nablus, ma bisogna percorrere almeno 15 km in più del necessario. La colonia illegale di Qedumim è sorta a poca distanza dalla strada e dal 2010 ai palestinesi viene vietato di percorrere quella strada. Una sentenza della loro Corte darebbe ragione ai palestinesi, ma l’esercito non ci sente e conferma il divieto di transito. Non vengo qui dal 2011, mi dicono subito che è ancora tutto uguale, i soldati assaltano da due parti. Ho con me il fotografo sudcoreano e un ragazzo olandese che studia arabo. È venerdì non ci sono service che vanno a Kafr Qaddum, ma a richiesta un service ci porta tutti e tre per una cifra accettabile. Così siamo là presto. Raggiungo un gruppo di uomini seduti sotto un albero a bere il tè. Mi aggrego, poi chiamo i miei amici. Chiacchierando arriva l’orario della manifestazione. Uno ha lavorato per la Saudi Airlines, uno è professore, uno insegnerebbe solo il corano. Per primi salgono i ragazzini, ridendo. Si fermano quando si vedono i soldati schierati sulla strada, subito uno si accuccia e punta il fucile. Poi arriva il piccolo corteo, intorno a una macchina, piena di gomme e carica di ragazzi sul tetto e il cofano. Ci sono anche alcuni dei soliti israeliani che trovo di venerdì. Si va avanti, qualche lancio di sassi con la fionda. Qualche adulto segue da più lontano e grida quando compaiono i soldati anche sulla collina a sinistra. Qualche lacrimogeno comincia a piovere giù, ma il vento è abbastanza favorevole e i ragazzi si spostano solo un po’. Niente di particolare, continuano gli scambi, i soldati corrono una volta di qua una volta di là, fino a quando un proiettile vero colpisce un ragazzo nella bassa gamba. L’ambulanza era pronta, purtroppo si sa che qui sparano proiettili veri, non quelli rivestiti di gomma. Credo che il ragazzo colpito era un amico stretto di un figlio Murad, fatto sta che con l’ambulanza che se ne va, ci iniziamo a ritirare. Il ritorno è stato semplice, un taxi che andava a casa ci ha dato il primo strappo, non senza averci prima mostrato la casa demolita della famiglia di un martire di 17 anni. All’incrocio che ci mostra, si ferma un altro taxi che andava a casa a Nablus! E ora a Nablus, è venerdì, ronde di uomini armati percorrono la città vecchia. Non ho osato fare foto, dimostravano potenza e sicurezza. Almeno 40 armati a viso coperto, con scariche a salve ogni tanto. Dimostravano il controllo della città e la sicurezza di chi ha il sostegno della popolazione, almeno altre duecento persone si muovevano o in mezzo o al seguito degli armati. Abu Sara 14 maggio Sabato agitato: le bombe su Gaza uccidono ancora per ogni combattente almeno due o tre tra donne e bambini. Qui invece c’è stata una incursione nel campo profughi di Balata, subito fuori Nablus. Ne è uscito uno scontro a fuoco, due ragazzi uccisi, anzi martirizzati come dicono loro. Uno è stato portato in ospedale, ma non ce l’ha fatta. Per cui il funerale parte da lì e per un momento blocca la città, a parte che le entrate sono state bloccate dall’esercito di occupazione. La partecipazione è sempre incredibile. Parecchi uomini armati seguono i corpi avvolti nelle bandiere, con scariche di fucili ogni tanto. I due, sono stati uccisi da cecchini con colpi diretti alla testa, uno è stato ucciso mentre apriva la saracinesca del suo negozio. All’altro prima hanno fatto saltare la casa, dove è rimasto un fratellino che mostra la casa distrutta, e la foto di un altro fratello ucciso tre anni fa. L’esercito ha poi ammesso che i due non erano quelli che cercavano e per cui era stata montata l’operazione. Ma loro fanno lo stesso quello che gli pare, tanto l’UE non dirà mai niente. Assalto a Nablus: dalle sette si sentono sirene dappertutto, decine di soldati attaccano la città, da più parti. La resistenza spara sui mezzi dell’occupazione, i minareti chiamano la gente alla resistenza. Hanno assediato una casa, alla ricerca di qualcuno. Troppi spari contro di loro troppa resistenza nella città, non sono ancora le otto quando le truppe di occupazione si ritirano. Due persone arrestate, nessun altro risultato ottenuto, almeno un soldato dell’occupazione ferito, per stessa ammissione loro. I negozi aprono, i ragazzi vanno a scuola, i cantieri cominciano il lavoro, sembra che non sia successo niente. Ieri sera c’era stata una piccola manifestazione a sostegno di Gaza, con vari discorsi infiammati contro l’occupazione. A Gaza invece festeggiano, nonostante tutta la sofferenza, questa volta la tregua è stata accettata, vuol dire che le condizioni richieste dalla resistenza congiunta sono state riconosciute. Poi si sa che raramente gli israeliani tengono fede agli accordi, ma solo avergli fatto accettare un accordo è una grande vittoria. Gli israeliani sono andati avanti a bombardare fino a mezzanotte, fino all’ora concordata per il cessate il fuoco, colpendo terreni agricoli. Anche da Gaza è partito un ultimo giro di rockets, che ormai si fanno beffe del loro “Iron dome”. Abu Sara 16 maggio È il giorno della Nakba, la catastrofe, la cacciata di 700.000 palestinesi, molti scappati dopo che avevano visto che in un villaggio avevano fatto una strage, altri convinti che era meglio andare via per un po’ e poi tornare. Oggi a Ramallah c’è una grande commemorazione, vengono da dovunque, decine e decine di autobus, migliaia di persone, molti striscioni con rappresentata la chiave. A molti nel ’48 era stato detto di tenersi la chiave di casa, ora la chiave è il simbolo del diritto al ritorno. Moltissimi gruppi di ragazzi con i tamburi, un vecchio autobus di allora che faceva la linea per Lod, dove ora c’è l’aeroporto. Ma ci dicono che ci sono ruspe a khalet ad dabaa. Bisogna andare, vengono con me i due danesi nuovi. Alla stazione troviamo un service che va direttamente a Yatta, con percorsi alternativi che solo l’autista conosce. Finalmente scendiamo dal service che ci ha portati a Yatta, credevamo veramente di avere fatto le corse e i sorpassi più azzardati, ma quello non era ancora niente. Ci incamminiamo sulla strada che da Karmel porta a Twani, sapendo che se non passa nessuno, la facciamo a piedi, ma se passa qualcuno è sicuro che si ferma. Infatti, la prima macchina che passa si ferma e dice che ci porta a Twani. Buona andatura, anche sullo sterrato, ma ci supera una macchina che corre e alza un polverone. Mentre cominciamo a uscire dal polverone chiedo “oggi non ci sono soldati?” (al solito posto, subito prima di attraversare la route 60)? No, no, oggi niente. Macché, dal polverone che si dirada ecco comparire il “diavolo”, almeno così pensa il ragazzo che ci ha raccolto. Una jeep dei soldati sta entrando sulla strada. Invece di fermarsi e farci scendere mentre torna indietro, come è successo altre volte, si sa che le auto palestinesi sono spesso irregolari, si butta a sinistra su uno sterrato e accelera, si volta a guardare, la jeep dei soldati ci insegue. Accelera ancora, su un dosso la macchina salta, si gira, la sua espressione dice che il demonio lo insegue, curva a destra, accelerata, doppia curva, secondo dosso molto più alto, si gira, atterriamo a un pelo da un masso che riesce a evitare per un soffio, doppia curva velocissima, mai corso così forte su uno sterrato, si gira, uuff la jeep ha rinunciato a inseguirci, finalmente un pezzetto di strada con calma, ci lascia a un bivio, da qui andate a piedi, mi dispiace. Un abbraccio affettuoso e un grande incoraggiamento. Ma c’è una casa, un uomo senza un braccio, due bambini, “tfaddal” accomodatevi, un tè un caffè, avanti, per piacere. Esce anche la moglie, tfaddal. Ma è quasi buio, è tardi, però pare veramente male non accettare, “ho detto a S. che stiamo arrivando”, “dai lo chiamo io intanto bevete il tè”. “Ma no, andiamo a piedi grazie veramente”. Hanno proprio approfittato della Nakba per ricordare che non è finita. Hanno sfasciato delle recinzioni, si sono divertiti a tirare via una sessantina di ulivi da poco piantati. In altri villaggi hanno pure tagliato alberi più grandi, hanno rotto un pozzo, hanno abbattuto un riparo per animali, dovunque hanno fatto violenze a chi li voleva contrastare. È proprio vero, la Nakba continua. Abu Sara 19 maggio La marcia delle bandiere: la provocazione di oggi, forse non al livello dell’anno scorso, quando la marcia era una ulteriore provocazione durante i bombardamenti su Gaza. Fin dal mattino gruppi di israeliani fanno il giro del quartiere arabo della città vecchia, con le loro bandiere e i loro slogan. Già per ogni gruppetto che entra la polizia comincia gli spintoni per allontanare i palestinesi, ogni tanto anche i reporter e i fotografi. I negozi vengono spinti a chiudere, rischiano solo danni. Anche un gruppo di paramedici viene malamente spintonato. Il posto deve essere solo per i coloni. Di mattina abbiamo potuto fare il giro della spianata delle moschee, e subito mandavano via tutti, fino allora mandavano via anche i coloni, ma quelli poi ne hanno lasciati entrare fin troppi. Siamo nella prima discesa entrando dalla porta di Damasco. C’è in giro una montagna di agenti di polizia, a me viene di chiamarli soldati, sono armati nello stesso modo, camminano con il mitra in mano, qualcuno ha la collana di bombe sonore, nello zaino il manganello, solo non indossano il casco protettivo. Ogni volta che spingono qualcuno verso un vicolo, hanno sempre alle loro spalle un gruppo di coloni che li pressa gridando insulti. A un certo punto tocca a me, la donna che sbraita nella foto, mi sta dicendo “andate via, non vi vogliamo, questo paese è solo per gli ebrei”. Finiamo quasi tutti fuori, dentro le mura pochissimi giornalisti, la polizia e i coloni. Fuori sono migliaia, con le loro bandiere, con i canti e i cori che saltano. Sulle mura vediamo che si sono appostati dei cecchini. Mi ferma un ragazzo, “ti ricordi di me, ci siamo visti a Hebron, guarda come è bello qui, con tutte le bandiere, perché tu invece stai con gli arabi?” Fuori incontriamo un gruppetto di palestinesi, per lo più ragazzi con qualche bandiera, si fronteggiano con un po’ di polizia che prova anche a caricarli. Per fortuna sembra che non ci siano stati scontri, né nella moschea, né fuori. Di nuovo a Kafr Qaddum: stavolta mi seguono due ISMers, ma andiamo anche a prendere altri tre all’ostello a Nablus, sempre frutto delle chiacchierate della settimana scorsa. Un service tutto per noi lo si trova subito! Ma c’è un check point all’entrata della strada principale, comune a palestinesi e coloni. “Dove li porti?” Chiede il soldato, “a Qalqilia” risponde prontissimo l’autista. Se dicessimo di andare a Kafr Qaddum probabilmente avremmo noie serie. Oggi la battaglia è tutta sulla strada: la prima partenza a passo sostenuto ha in testa gli anziani con le bandiere. Quando arriva la prima scarica di lacrimogeni, gli anziani si ritirano e appena si dirada la nuvola (abbiamo il vento a favore) vengono sostituiti dai coraggiosissimi ragazzi. Questi avanzano tirando sassi, anche loro respinti da una nuova scarica di lacrimogeni. Dopo qualche round ecco arrivare anche la macchina “corazzata” con fogli di lamierino, i ragazzi vanno avanti tirando sassi, protetti dalla macchina e da qualche scudo artigianale. Ogni tanto qualche sparo, oggi sembra di “rubber bullet”, perché i feriti sono tutti leggeri. Verso le due, il segnale di ritirarci, “yalla shebab halas” Abu Sara 27 maggio CITTA’ VECCHIE, CAMPI PROFUGHI, PUNIZIONI COLLETTIVE, MANIFESTAZIONI I coloni dentro la città vecchia: prima una pattuglia in esplorazione “nella giungla”, chissà cosa temono, poi il grosso delle truppe, ma ci sono più soldati che coloni. C’è anche qualche soldatessa evidentemente in rodaggio, non hanno ancora il carico di armi e neanche il casco. Gli altri hanno il tipico atteggiamento a scatti da guerriglia urbana che teme gli agguati ad ogni angolo. Qualche commerciante si ostina a stare aperto per dimostrare che non teme i coloni, ma oggi va tutto bene. L’amico che fa le bottigliette di vetro con i disegni di sabbia, ha chiesto a un soldato: “mi pare che buona parte sono “Ashkenazi”, e il soldato ha risposto che erano tutti Ashkenazi quindi sicuramente sionisti! Campi di rifugiati: siamo di fronte a ex accampamenti di tende, progressivamente trasformati in villaggi, senza pianificazione di niente, spesso senza neanche spazio intorno, quindi con una crescita verticale delle abitazioni, con allacciamenti provvisori di luce e acqua. credo che sarà un problema sempre più grande. La maggior parte sono profughi del ’48, ai quali, nel ’49, l’ONU sancisce il diritto al ritorno, che evidentemente non è mai stato implementato. Siamo a 75 anni dopo il che vuol dire che siamo almeno alla terza generazione. Se anche il nonno nel ’48 aveva una attività, aveva un negozio o coltivava la terra o lavorava nelle costruzioni, la memoria di questa attività è scomparsa. È come dire che i ragazzi che ci sono ora non conoscono un passato che non sia di profugo più o meno assistito. Senza passato come si può pensare al futuro? Ora poi, USA in testa, si tagliano i fondi all’UNRWA, rendendo la vita ancora più difficile nei campi. È chiaro che diventa facile essere dei disperati, tanto più se la religione ti fa sperare in un buon aldilà se diventi un martire. Cacciati dalla città vecchia di Nablus: Cercavamo una cerimonia commemorativa per un martire sedicenne. Avevamo chiesto, a un ragazzo che sarebbe venuto con noi a Beit Dajjan, se eravamo benvenuti. Ma o abbiamo sbagliato orario, o abbiamo preso una strada che non dovevamo, e non quella per l’incredibile emporio di spezie e antichità visto la sera prima, fatto sta che ci vengono incontro gridando, via e fuori di qui. Chi grida di più è una donna con il burqa nero, probabilmente madre o sorella di un martire, chi invece spintona e incalza è un omone grande e grosso. Certo non ci mettiamo a discutere. Fatto sta che ci spingono in malo modo fino alla piazza sotto le vie del mercato, e non è stata una bella esperienza. È evidente che devono difendersi, ogni foto o illustrazione di certe zone per loro è un pericolo. Abbiamo visto la moto su cui è stato messo l’esplosivo che ha ucciso due ragazzi e che non sanno come sia stato possibile. Punizione collettiva: Era un sistema usato dagli stati coloniali nell’Ottocento, quando i nostri antenati occidentali, sicuri della propria superiorità sia intellettuale che organizzativa, e convinti della effettiva inferiorità delle popolazioni colonizzate, procedevano a sistemi di punizione collettiva come deterrente per gli atti di rivolta. Gli ultimi a usare la demolizione delle case come deterrente sono stati gli inglesi, proprio in Palestina. È qui che un decreto militare operativo gli faceva riempire di cemento la casa dove aveva abitato un tal ribelle, per altro già fucilato. Da quando esistono le Nazioni Unite e, almeno sulla carta, nessun popolo è inferiore agli altri, solo Israele continua questa pratica. È successo nella notte a N’ilin. Sono arrivati tanti soldati, con casse piene di esplosivo. Si sono fatti largo nella cittadina, fino alla casa di……. Era colpevole di un attentato con sparatoria a Tel Aviv nel…… Hanno piazzato le cariche, hanno fatto saltare tutto. Poi dovevano allontanarsi dal posto, ma erano inseguiti da grandi sassaiole, sono riuscito solo riempiendo la città di lacrimogeni. Come fanno a pensare che i giovani verranno dissuasi dalla ribellione? Non succederà piuttosto che anche a Ni’lin compaia un nuovo gruppo di armati, dopo Jenin, Nablus, Tulkarem, Gerico? Manifestazione del venerdì a Beit Dajjan: Siamo sempre vicino Nablus, ma questa volta in una vasta pianura fertile, dove si vedono campi a grano e foraggio, e dove ci sono stalle moderne per bestiame, non come le stalle dei beduini. E non dovevano volerla anche i coloni? Loro che raccontano di far fruttare il deserto (basta rubare l’acqua e portarcela, non devono obbedire a parametri di equilibrio energetico). E così, su una collinetta appena poco sopra la piana ecco comparire un insediamento, con allevamento di bestiame, e il progressivo furto di terra per foraggio. Da qualche anno il paese insorge, è tutta una porzione di territorio a cui gli viene negato l’accesso. Qui non c’è battaglia, i soldati ci fermano su una strada, da cui non arriviamo nemmeno a vedere la colonia, prima due soldati sulla strada, poi cinque, poi dieci, poi dieci più cinque alle jeep, più cinque che si avvicinano dalla collina. Qualche bomba sonora. Quando però ci ritiriamo, si divertono a fare vedere che fanno quello che gli pare, e ci sparano qualche lacrimogeno, molto cattivo visto il vento a loro favore, e il terreno piatto che non fa defluire il gas da nessuna parte. 28 maggio MATRIMONI E VITA IN FAMIGLIA Tornare a Al-khalil (Hebron) vuol dire incontrare subito i soldati dell’occupazione. Sono almeno una ventina, bloccano le strade e il movimento palestinese, solo per qualcuno andare a vedere la casa contesa. “entro un’ora i negozi sottostanti devono essere chiusi”, ordine generico e solo espressione di soverchieria. Anche sulla collina di Tel Rumeida i coloni provocano e i soldati arrivano minacciosi. Mentre i coloni davano fuoco a Burqa, nel nord, gli è parso bene anche dare fuoco a uno di questi ulivi che risalgono ai romani. Hanno riempito di sterpi il tronco cavo e hanno fatto partire il fuoco intorno, speriamo che i danni non siano troppo gravi. Ma volevo racconti più di folclore. Arrivando a Beit Dajjan presto e non sapendo ancora niente della manifestazione, ci fermiamo ad un tendone dove si sta riunendo un po’ di gente. Saranno quelli della manifestazione? Assolutamente no, siamo capitati in un matrimonio! Subito arriva un caffè, ma “sedetevi”. Mentre chiedo in giro per la manifestazione, i miei compagni vengono già trasferiti ad un tavolo in fondo e chiamano anche me: si mangia, ad ognuno è stato portato un piattone di riso speziato con carne stufata e yogurt. Beninteso mangiamo, attorniati da bambini curiosi che ci fanno domande. Le donne però non ci sono, oggi la festa è solo per uomini, domani sarà quella per le donne, che ora vediamo assiepate sui balconi delle case che guardano verso la festa. Allora ricordo che ci deve essere qualche passo biblico che racconta come l’incontro con dei viandanti e la loro accoglienza durante una festa di matrimonio sarà un ottimo auspicio per gli sposi! A proposito di sposi, a Nablus prima di poter rientrare all’ostello, incontriamo l’amico giornalista, con un amico, poi un altro e un altro ancora. Insomma con un bel tè viene fuori che uno degli amici combina matrimoni. Ma come, non erano le famiglie a occuparsi della cosa? Era così, ma con sempre più matrimoni insoddisfacenti siamo arrivati agli intermediari. Ci lavora da cinque anni, viene pagato in base al risultato ottenuto, a parte il necessario anticipo quando comincia la ricerca. Racconta che saranno un centinaio per tutta la Palestina, e tutti lavorano! C’è poi la famiglia di Jamal a Yatta. Ci arrivo di sabato, quando Jamal è a casa. Ha appena portato un carro botte di acqua, poi andiamo a vedere il grano a Sussya, ma a quest’ora è troppo secco per mietere, bisogna venire di mattina. Insomma tutto va organizzato. Per sera Jamal si prepara un po’ di cose per la settimana, poi tutti a dormire prima possibile: Jamal parte alle tre, lo passano a prendere, ma poi dovranno stare ore al check point di Betlemme, tutti i lavoratori in fila, spesso si vedono ammassati come bestie, per controllare i loro permessi. C’è chi fa questa vita tutti i giorni, chi invece fa la settimana di là. Verso le sette Sanaa prende i bambini piccoli e viene a prenderli suo padre per andare a mietere il grano. Le ragazze invece vanno a scuola alle sette e mezza, e finalmente anche io e Mohammed usciamo con le pecore. Abu Sara