Palestina terra promessa
Per la giornata di festa organizzata proprio a Tuba è allestita una tenda, dove ogni tanto arrivano viveri e bevande: sono le varie famiglie di pastori che contribuiscono, senza un particolare coordinamento. Arriva un giro di the, sembra che non ce n’è molto, ma subito ne arriva un altro, così ce n’è per tutti. Poi gira pane, yogurt, cetrioli e pomodori. Poi caffè. Poi di nuovo pane. Poi di nuovo the….. e avanti così tutto il pomeriggio. Ci sono chitarre, si canta. C’è musica palestinese e un po’ di ragazzi inscenano i loro balli. I ragazzi fanno corse con gli asini sulle colline.
Dopo la marcia e la giornata di incontri e festeggiamenti, i volontari rimasti veniamo divisi tra due famiglie di pastori. Alex, io e un altro veniamo accompagnati in una grotta, enorme. Fuori si era alzato vento freddo, dentro c’è un bel tepore. Poi con un giro di pane, pomodori e Jameed, accompagnati dal solito the, si sta proprio bene. Ma la grotta non viene usata per dormire!
La notte è sotto le stelle. Sono in cima ad una collina, a Tuba, in uno dei paesini più sperduti delle colline a sud di Hebron. Il giorno era passato tra tazze di the e di caffè, ma sono i colori della sera ad inebriarmi. I nostri ospiti pastori avevano già provato ad invitarci ad andare a dormire, ma avevamo detto di non avere sonno, erano ancora si e no le nove di sera. Così era girato ancora un altro the. Al secondo tentativo di “andiamo a dormire”, accettiamo. Succede di nuovo come l’anno scorso in qualche altra occasione: le donne vanno sotto tetto, in una tenda aperta, dopo avere preparato i pagliericci e le trapunte per gli uomini. Gli uomini siamo fuori, dislocati in tre posti, io sono in quello più in cima alla collina, e per giunta dei tre pagliericci occupo quello messo verso ovest, da dove soffia un vento potente.
Lo stellato era grandioso, la via lattea tangibile. Sono rimasto a guardare il cielo. L’Orsa maggiore stava tramontando, alla mia sinistra. Venere era appena spuntata davanti a me. Cassiopea splendeva con un numero di stelle mai visto. Dietro la mia testa era lo Scorpione che tramontava, sopra alcune luci israeliane oltre la frontiera, a sudest. Verso est si indovinano, più che vederle, delle luci dalle colline della Giordania. Provo a chiudere gli occhi, ma poco dopo sono di nuovo lì a guardare. In fondo, so che per aspettare Orione ci vorrà un po’. Ma prima sale l’Aquilone, con quel suo formato piccolino nel cielo enorme e la coda bella dritta. Richiudo gli occhi. Il vento soffia troppo forte e alza la mia trapunta. Cerco di infilarla sotto la stuoia. Qualche metro più su c’è anche la girandola di un generatore eolico, piccolo, antico, che fischia come un disperato per il vento. Mi accorgo che con questo vento non c’è ancora rugiada, comunque mi tiro su il cappuccio della felpa e lo stringo. Così va avanti la notte, ma non ho sonno, il cielo è troppo bello. Ogni volta che guardo, Cassiopea ha girato un po’. Ecco, finalmente c’è Orione, ma prima era salita un’altra luce troppo forte. Deve essere Giove. Anche la via lattea non è più parallela a dove sono steso, sta girando anche lei. E quante altre stelle che non conosco, quante formazioni dai contorni bellissimi! Mi immagino gli antichi che davano il nome alle costellazioni, vedendo disegni formati nel cielo. Ora Orione è molto più alto, il vento è calato, la pala eolica bisbiglia appena. In compenso aumenta la rugiada, tutto si sta bagnando. A un certo punto c’è uno scoppio di luce a est, che aumenta velocemente. Se è vero che è cambiata l’ora, sono le 5 meno venti. Scompaiono tutte le stelle, rimangono i pianeti: ce n’è un terzo che prima non avevo notato, è Saturno. Non avevo notato quanto brillano più delle stelle, sono vicinissimi e per ora riflettono in modo incredibile il sole che non è ancora sorto.
Finalmente qualche movimento, si alzano in volo i colombi (c’è un piccolo allevamento), raglia un asino, abbaia un cane, belano varie pecore, si alzano le donne, la mamma passa con i pani da infornare. Si alza papà, va a prendere granaglie per le pecore, quassù c’è così poco in giro che non le porta nemmeno fuori. Prima di mettere le granaglie pulisce le mangiatoie, le galline hanno cercato avanzi e hanno lasciato escrementi. Intorno a dove era appoggiata la mia testa il cuscino è tutto bagnato, così pure la trapunta e le scarpe che sono rimaste appoggiate fuori.
I bambini sono pronti, con la cartella in spalla. Dovremmo accompagnarli fino a dove li scorteranno i soldati. Ma arriva un contrordine: la partenza è tra un’ora, si sono adeguati all’ora legale; intanto venite a prendere il the. Il pane è caldo, c’è un po’ di olio e dei pezzi di jameed, che qui chiamano lebanon, come quello fresco (si tratta sempre di derivati dallo yogurt). Ma intanto i bambini sono partiti, gli altri tre ragazzi gli corrono dietro e li trattengono fino all’arrivo della jeep. Li chiamiamo: “E noi, che dobbiamo tornare a Hebron?” “Stiamo tornando”. Poco dopo arrivano. Anche loro rientrano ad At-Twani e così ci guidano per la via che usano sia loro sia gli abitanti di Tuba quando vanno con l’asino in “paese”. Si scende a precipizio in un fondo valle, poi lo si segue, inizialmente in discesa, poi, dopo una confluenza (di uadi secchi, l’equivalente di ruscelli secchi, l’acqua non ci corre quasi mai), in salita.



Tuba 23 settembre 2012
A poche centinaia di metri da questi pastori così profondamente in simbiosi con la natura del posto, dietro una collina, sorge l’enorme insediamento di coloni illegali di Havat Ma’on. Lì vivono recintati, una serie di fari illumina la notte, si fanno arrivare acqua a fiumi per agricoltura irrigua, per alberi da frutta e per allevamenti intensivi. Escono con bastoni e sassi per attaccare i bambini Palestinesi che vanno a scuola o per attaccare i pastori. Escono con le motoseghe più moderne per tagliare e distruggere gli uliveti Palestinesi. Continuano ad allargare il loro insediamento con nuovi out post illegali: tutte quelle zone desertiche sono da tempo “firing area” (zona per esplosioni o per esercitazioni militari) e quindi vietate ai Palestinesi, ma pronte per vedere comparire nuovi insediamenti che, nonostante inizialmente siano dichiarati illegali, vengono presto allacciati alla rete idrica e elettrica.
Amer, bambino di sei anni figlio dei miei amici beduini, venerdì sera, mentre ero seduto fuori a guardare la luna, lascia il suo giaciglio e mi viene vicino. Anche questa sera suo padre non c’è, è ancora a lavorare in Israele con il raccolto delle cipolle. “Non riesco a dormire, è come se ci fossero coloni dappertutto”- “Devo venire a dormire anch’io vicino a te?” “Si, per piacere…..” Se queste devono essere le preoccupazioni di un bambino di sei anni, che qualche giorno fa ha visto demolire le tende dell’accampamento di fianco, che l’anno scorso ha visto dare fuoco all’accampamento dei cugini, che domani andrà a scuola per la prima volta! E tutto questo mentre il mondo ignora e fa finta di niente.
Sussya 2 settembre 2012
Sono stato in Palestina sei mesi, anche se questo succedeva parecchi anni fa (2011 e 2012). Eppure quello che ho condiviso con la gente rimane fin troppo attuale. Vorrei quindi ripresentare le lettere in un modo diverso da come le avevo scritte allora, seguendo per argomenti e aggiungendo qualcosa di più attuale.
Avevo cercato di contattare ISM in Italia, ma rimaneva difficilissimo, nonostante nell’aprile 2011 veniva rapito e poi ucciso Vittorio Arrigoni, volontario di International Solidarity Movement. Chi rispondeva per ISM Italia in quel tempo non lavorava per mandare volontari in West Bank, ma pensava solo che dovevano fermarsi a studiare molto prima di poter andare.
Ecco, io invece ho sempre pensato che nella vita dobbiamo conservare la nostra apertura a capire: per capire una realtà devi imparare sul posto, più ti senti di avere studiato e di essere preparato culturalmente e più la tua potrebbe essere presunzione di conoscere e conseguentemente incapacità di ascoltare. Per lo meno è in questo modo che mi sono mosso io tutta la vita.
Voglio così tornare alle lettere che ho scritto allora e inserirle in un discorso complessivo. In Palestina ero conosciuto come Abu Sara, secondo la tradizione, Abu (padre di) seguito dal nome del primogenito (maschio), ma a me è stato concesso di usare il nome della primogenita, nonostante abbia anche un maschio. Avevano un altro problema: hai solo due figli? E se succede qualcosa (per loro è troppo normale) a uno dei due, che cosa ti rimane?

INDICE
Anteprima pag.1
1)Contraddizioni e occupazioni Pag 6
2)Ambientalismo-Extinction/Rebellion pag 18
3)Militarismo e paura pag. 21
4) Accordi di Oslo eAutorità Palestinese pag. 26
5) Hebron e dintorni Pag. 35
6) Nablus e le olive Pag. 70
7) Valle del Giordano pag. 75
8) Nabi Saleh Pag. 78
9) Kafr Qaddum Pag. 88
10) Detenzione amministrativa, ancora colonialismo? Pag. 90
11) 2020: nuova occupazione o annessione? Pag 92
12) Ora ecco le tre settimane più intense che ho trascorso in Palestina pag. 92
13) Dopo il macello di Gaza Pag.115
1) Contraddizioni e occupazioni
Attraverso un po’ di episodi vorrei vedere una serie di contraddizioni nel sistema sionista e la vera sostanza dell’occupazione.
Giovedì 29 e venerdì 30 hanno festeggiato il capodanno ebraico. Gli israeliani sembravano tutti più allegri e tranquilli. Incontro due rabbini in gita: sono sulla nostra strada, tra i due check point, strada percorsa spesso da coloni, ma mai da rabbini nella loro tenuta nera; infatti i due sono francesi, a Gerusalemme e Hebron per le festività del capodanno. Quindi chiediamo loro: “Ma che anno festeggiate?” I soldati del posto di blocco non ci avevano saputo rispondere. Anno 5.722, dalla creazione del mondo! E quindi della storia di Israele!
Ci credono davvero: e in mano a gente con questo tipo di fede e credenze viene lasciato un simile potere. Tutto lo stato ebraico è confessionale, per esempio non esiste altro matrimonio che quello religioso.
Come dicevo prima, gli israeliani sembravano tranquilli dopo le provocazioni dei giorni precedenti. Accennavo a un incidente stradale in cui erano morti due israeliani e si dava la colpa ai palestinesi; poi la notizia peggiorò: si tratta di una azione terroristica, i due sono morti andando fuori strada perché gli tiravano sassi! Successivamente la cosa si sarebbe sgonfiata, sono tornati alla versione dell’incidente, ma intanto si era ottenuto l’effetto voluto di fare aumentare la tensione. Il funerale anziché a Qiryat Arba (dove quelli abitavano e che è un grande insediamento ebreo alle porte di Hebron), viene spostato qui, vicino a noi, dove il cimitero ebraico è in zona palestinese. Viene militarizzata la zona e vengono portati qui, per la sepoltura, un centinaio di coloni incazzati. Costoro ad un certo punto riescono a trovare un palestinese da solo con la famiglia, lo circondano e gli tirano, orribile novità, dei gas di tipo urticante se non addirittura nervino. Questa roba è stata data dall’esercito ai coloni, per “difendersi”! Il poveretto è stato ricoverato in ospedale in preda a convulsioni.
Due giorni dopo, martedì scorso, c’è di nuovo una ronda serale di un centinaio di coloni. Veniamo chiamati subito (c’è un telefono detto “telefono di Hebron”, su cui riceviamo le chiamate della zona); eravamo da poco rientrati da un giro di pattuglia serale, cosa che facciamo sempre, avendo trovato tutto tranquillo, quando arriva la richiesta: sono in tanti, all’angolo qui sotto, tirano sassi contro i palestinesi. Usciamo tutti, siamo cinque. Effettivamente c’è un grosso gruppo, saranno un centinaio, di ragazzi tra 15 e 20 anni, visti così non sembrano cattivi, ma per una scintilla lo diventano. Sono in una strada senza uscita, in cui sono entrati scendendo dall’uliveto abbandonato, i soldati li hanno lasciati girare.
Come arriviamo noi, vedi che anche i soldati si attivano ad indirizzare i coloni; così si allontanano da lì, per ridiscendere su Shuhada street. Noi li seguiamo e i soldati pure, un soldato va a riprendere un ragazzo colono che si stava nascondendo in un angolo buio per tirare sassi contro una casa di palestinesi. Poi il grosso del gruppo si avvicina ai due autobus con cui sono arrivati, mentre dei ragazzi mi circondano e comincia una discussione: “Perché hai quella kefiah bianca e rossa al collo?” “L’ho messa perché sono un po’ raffreddato”, rispondo. Chiaramente la discussione poteva degenerare, ad ogni buon conto arriva un soldato a mandarli via.
Finalmente sono quasi tutti risaliti sui bus e noi ci avviamo a rientrare, quando un colono locale, con tanto di bambina in braccio, mi lancia uno sputo. Gli dico: “Ma non ti vergogni, con quella bambina in braccio? E voi soldati non dite niente?” Non contento, e sempre con la bambina in braccio, torna dopo aver raccolto un sasso e me lo tira contro! Sembrava un toro inferocito: l’idea che degli internazionali siano qui a sostenere i palestinesi li fa sbavare dalla rabbia, mentre l’educazione dei bambini viene impostata sulla paura e sull’odio. Cosa c’entra con le scelte religiose?
Siamo andati a casa, mentre quattro soldati lo tenevano, e una macchina della polizia ci spingeva, “andate via per favore”!
Circa tre quarti d’ora dopo arriva un’altra chiamata. Io ero già a letto, comunque usciamo di nuovo. Allo stesso posto di prima, ci sono ancora una quindicina di coloni agitati, visibilmente alterati, ma per ora ci sono anche i soldati e ci limitiamo a vedere che se ne vanno, infilandosi in un po’ di macchine.
Hebron, sabato 1 ottobre 2011
Non solo vivono in uno stato confessionale, vivono anche con le loro abitudini precedenti (sono tutti immigrati recenti), ben diverse a seconda della provenienza: per esempio un ebreo che viene dalla Russia era un mangiatore di suini e insaccati e pretende di avere le macellerie che ne vendano. Ma la gran parte degli altri ebrei, europei, americani e ancora di più quelli provenienti dai paesi arabi o dall’Etiopia, hanno conservato il divieto al consumo della carne di maiale, e questo causa non pochi litigi e tensioni. Per avere delle abitudini alimentari comuni spesso le stanno rubando ai Palestinesi: così ora hummus e felafel li fanno gli ebrei!
Sono tornato in Palestina. E’ il 20 agosto 2012.
L’interrogatorio è il solito: cosa conti di fare, chi conosci in Israele, dove pensi di andare. Io ho ricominciato con la storia dell’anno scorso: una crisi personale, faticosamente superata, ma bisognosa di un altro periodo di riflessione. Quindi un viaggio “spirituale”? Più o meno…. Ma mi rendevo conto dell’assurdità della mia affermazione: come puoi dire che vuoi risolvere problemi esistenziali nei luoghi “santi”, ma in mezzo a Israeliani frenetici, arrabbiati, scontenti della loro situazione, i quali hanno visibilmente travisato le stesse convinzioni religiose alle quali dicono di attenersi? Penso all’aria insoddisfatta di un ragazzo, studente di teologia rabbinica, che era di fianco a me in aereo. Francese, ma con codini e ammennicoli da rabbino, leggiucchiava un libretto in ebraico e agitava la testa sconsolato. “Ma cos’hai, sei così arrabbiato con la vita?”, gli ho chiesto. Mi risponde che è incerto se chiedere di restare in Israele o tornare invece in Francia. Trova cose contraddittorie in ambedue i posti. C’è infatti una corrente di pensiero ebraico che afferma che il giudaismo è il contrario del Sionismo. Se questo gruppo potesse espandersi non sarebbe male, non ci sarebbero tutti i problemi che invece ci sono!
Israele si aspetta un’immigrazione annua di ebrei, soprattutto francesi, per garantire un incremento demografico, pare però che l’immigrazione sia molto in calo rispetto alle loro aspettative.
Veniamo agli ebrei antisionisti: c’è una corrente che nasce a Gerusalemme, proprio mentre cominciano ad arrivare sempre più sionisti, per contrastare l’idea dello stato ebraico: affermano di voler combattere l’idea di stabilire uno stato ebraico nel tempo presente (tempo che ritengono ancora di esilio), poiché ritengono contrario all’autentica tradizione religiosa ebraica lo stabilire tale stato senza aspettare che la terra venga esplicitamente donata dall’Altissimo. La loro opposizione al sionismo parte dunque da una motivazione non di ordine politico, ma religioso.
Rifiutano le etichette di gruppo estremista e di ultra-ortodossi, dichiarano che non hanno tolto o aggiunto nulla alla legge e alla tradizione ebraica, e a sostegno della loro posizione citano il Talmud, in cui si afferma che gli ebrei non possono utilizzare forze umane per stabilire uno stato ebraico finché non venga il Messia della casa di Davide, e in cui si afferma che devono essere cittadini leali delle nazioni in cui vivono senza cercare di anticipare la fine dell’esilio. L’esilio infatti ha la caratteristica di punizione divina per i peccati commessi e pertanto non può essere aggirato da politiche di uomini ma solo da preghiera, buona volontà e spirito di penitenza.
Gli ebrei devono considerare la venuta del Messia e regolarsi su di essa per stabilire la condotta e il comportamento più consoni. La terra di Palestina appartiene a palestinesi, ebrei e arabi che vi convivono! Il gruppo principale prende il nome di Neturei Karta (traducibile con “guardiani della città”, in aramaico), alcuni hanno dovuto andarsene perché perseguitati dal sionismo alla stregua dei Palestinesi. La terra promessa non si può prendere con la violenza, deve ancora essere affidata dall’Altissimo agli eletti, quindi collaborano con i Palestinesi, soprattutto sui problemi dei detenuti, visto che si tratta di una causa comune, perseguitati insieme dai sionisti.

Un po’ mi viene da pensare allo Stato della Chiesa, anche questo molto contestato e alla fine forse in via di abolizione: uno stato in cui si annidano brogli, intrighi, corruzione, cosa c’entra con la Chiesa? E così per gli ebrei: gli contestano di usare nomi religiosi nei partiti politici, di avere rabbini presenti negli stessi, di modificare la Torah secondo gli interessi del sionismo.
A Beit Ommar ho incontrato il gruppo che fa le manifestazioni il sabato, ed anche il mio amico Nasri, ex “raìs” del comune (sindaco), che è stato ad Ivrea per il gemellaggio con quella città. La sua casa è sempre un porto di mare: così tra la gente che veniva ed i suoi pensieri, è venuto fuori qualcosa. Nessuno crede che ci sia una qualche pace vicina. Gli israeliani assolutamente non la cercano, loro, i palestinesi, possono solo resistere. Qualche anno fa la gente aveva paura ogni volta che, dalla torre di controllo all’entrata del paese, saliva una jeep militare: tutti si ritiravano. Ora non più, e questo è un buon segno, come anche il numero di bandiere palestinesi sulle case. Ogni segnale di resistenza è un passo avanti.
“Quando ci hanno cacciato nel ’48, i profughi erano 500.000: ora sono diventati più di cinque milioni, e gli israeliani ne hanno paura”.
Ma è la pazienza araba a essere grandiosa: è scritto nel Corano che per un po’ gli ebrei avrebbero avuto il sopravvento. Tanto la Palestina è stata occupata molte volte, e tutti prima o poi se ne sono andati, gli assiri, i babilonesi, i romani, i turchi, gli inglesi. Se ne andranno anche gli ebrei. Lo dicono anche le loro scritture: la creazione di uno stato sionista è l’inizio della loro fine.
Quanto agli arabi, a loro il compito di conservare le famiglie compatte, non come in occidente. Curare gli anziani, non metterli nelle case di cura, fare tanti figli e tenerli insieme. Che dire di questi ragionamenti? Prendo nota e rifletto. Beninteso mi fermo a dormire da Nasri, come avevo fatto anche l’anno scorso.
Al khalil 2 settembre 2012
Cerchiamo di capire Israele in termini di macroeconomia: il rapporto debito/Pil è uno di quelli “sani”. Pare al 61% che forse ora, causa pandemia, peggiora al 71%. Beh l’Italia è al 132%, situazione ben più grave. Ma come spieghiamo la “stabilità” israeliana?
A diminuire il debito arrivano gli enormi contributi delle grandi banche americane, tutte in mano a famiglie ebraiche, i Rothschild, i Goldman, i Sachs, i Lehman. Poi i contributi degli States per gli armamenti, 3,8 miliardi di dollari all’anno fino al 2028.
Ad aumentare il Pil invece vengono inserite le folli spese militari, sono per la sicurezza e quindi producono valore e fanno crescere il PIL (non è solo una invenzione loro, effettivamente nei termini di macroeconomia la difesa fa parte del PIL, come anche l’inquinamento e il suo risanamento)!
Ecco quindi svelato il “sano” rapporto debito/Pil!
Ho visto moltiplicarsi i cosiddetti luoghi sacri: è così che gli israeliani conquistano territori. Basta dichiarare una zona “di interesse archeologico” ed è fatta. Dichiarare che una pietra ha 3000 anni non è certo difficile, tutte le pietre hanno milioni di anni, ma dire che ci ha appoggiato le chiappe Abramo o un profeta, è certo una affermazione molto labile, ma è l’affermazione che presto diventa verità, e su queste basano il sionismo. Tutto quello che è legato alla storia, per esempio le case di Hebron che hanno parecchie centinaia di anni, non sono invece “beni culturali” perché non c’entrano con il sionismo, quelle si possono distruggere, come hanno fatto e come faranno ancora. Cancellare la storia degli altri per dire che esistono solo loro, questo è alla base del loro razzismo. Un pietrone alla base della collina di Tel Rumeida a Hebron, un altro sulle colline di Sussya, ed ecco che si realizzano delle zone da chiudere ogni tanto per farci dei pellegrinaggi, vietandole ai Palestinesi. A Sussya hanno recintato un pezzo e hanno realizzato una “antica sinagoga” sulle colline, poi per sicurezza chiudono con massi le strade percorse dai palestinesi, tanto quelli non contano niente. Solo loro, discendenti degli “eletti” devono spadroneggiare, attraverso una forma di razzismo nuovo, non a base etnica, che sarebbe impossibile vista la mescolanza etnica dei sionisti, ma a base religiosa.
Hebron- Al Khalil 7 ottobre 2012
Altra contraddizione colossale è tutta la diatriba sull’antisemitismo: I semiti dovrebbero essere i discendenti di Sem, terzo figlio di Noè: quindi sono semiti complessivamente i popoli arabi del medio oriente, ma non gli ebrei Ashkenaziti, che sono il 70% degli ebrei e che provengono dall’impero Kazaro, esteso dal Caucaso agli Urali, e che nel IX secolo si convertì alla religione ebraica, per opera di missionari ebrei, prima di venire dispersi in Europa orientale e centrale a causa degli attacchi di Vichinghi, Turchi e Mongoli. Evidentemente non sono semiti gli ebrei etiopi, indubbiamente africani, anche se qualcuno pretende che questi sono ebrei per discendenza da Salomone e dalla regina di Saba o che sono provenienti da una tribù perduta di Israele (?). Certo sono africani a tutti gli effetti! A questo punto sarebbero semiti solo gli ebrei sefarditi, e ”antisemitismo” non si capisce cosa effettivamente possa significare!
Tra l’altro giorno e ieri sera ho visto un gran numero di ebrei: il primo rilievo è la percentuale altissima di militari e di religiosi tra quelli che viaggiano! Il secondo rilievo è la multietnicità di tutta questa gente, per cui e’ evidente quanto sia pretestuoso il volersi chiamare popolo eletto e monoetnico! Niente di più falso, inventato solo per giustificare l’esistenza di uno stato confessionale. A parte i nuovi immigrati, la gente è di tutte le tonalità possibili, come qualsiasi popolo che ha subito invasioni o vissuto spostamenti e deportazioni. I Rom sono monoetnici, mai mescolatisi nonostante le persecuzioni e le deportazioni, i palestinesi sono monoetnici, mai spostatisi ed eredi di questa terra dove vivono da millenni.
Ramallah 7 ottobre 2011
Come avvengono le occupazioni di terra destinate agli insediamenti?
Raramente i Palestinesi si erano preoccupati di documentare la proprietà della terra: è una ricerca farraginosa perché i documenti risalgono tutti all’impero ottomano. Gli inglesi durante il loro mandato non hanno aiutato per niente a istituire degli archivi moderni. Fatto sta che quando pezzi di colline vengono confiscate e occupate, è difficilissimo presentare documenti che poi la corte israeliana accetti come validi!
Per allargare gli insediamenti invece il gioco è semplice. Una legge israeliana permette di confiscare i terreni che risultano incolti da più di due anni (beninteso solo se è a vantaggio dei sionisti). Basta riuscire per quel periodo a tenere lontano i Palestinesi, proprietari e coltivatori! Coloni e soldati non si fanno pregare: con la scusa che ci si avvicina troppo all’insediamento dei coloni, i Palestinesi vengono cacciati continuamente e obbligati a lasciare la terra senza più coltivazioni.

Finalmente, dopo un po’ di settimane che pensavo di farlo, decido di andare a Beit Ommar (a metà strada tra Betlemme e Hebron), che è il paese il cui “mayor” è stato a Ivrea per il gemellaggio. Intanto i due del mio gruppo che dovevano raggiungermi, con la scusa di non sapere quale bus prendere, non sono arrivati, e io mi ritrovo ad un Center for Justice and freedom, con due palestinesi molto in gamba e preparati che mi spiegano che loro sono contrari al fatto che i ragazzi lancino delle pietre. Piano piano arrivano degli spagnoli, degli italiani; si preparano striscioni come: “Gaza” in rosso e tutto sanguinante e “basta con i bombardamenti”. Mentre si preparano i cartelli, mi spiegano che lì si va fino a dove i soldati sbarrano la via con la solita scusa: “military zone”. Senza preavviso, dicono che hanno deciso di fare una fascia di protezione intorno all’insediamento, togliendo terre a chi le coltiva, e non ci vogliono più lì. Arrivati al confronto con i militari, ci buttiamo a destra nel frutteto, e loro dietro per fermarci. Visto che non si può andare avanti, tutti seduti a terra. Poi cominciano a sollevarci di peso e a strattonarci.
A un attivista palestinese viene rotto un braccio; io rimango con lui, poi i soldati mi riportano con gli altri, mentre con il ferito rimane un attivista israeliano. Il capo dei militari ha un’aria da SS, con il suo proclama in ebraico e la cartina annessa: “questa è zona militare, dovete sgombrare”. Non leggiamo il suo proclama, che non ha traduzione né araba né inglese. Casini, spintonamenti. Io sto davanti con tutti i discorsi soliti: perché togliete la terra, perché maltrattate la gente, perché avete arrestato quei due palestinesi, finchè l’SS dice: allora anche tu vieni con noi!
Mani dietro la schiena, attaccate con fascette stringitubi, occhi bendati, senza vedere assolutamente niente. Mi spingono dentro una jeep, dove c’erano già i due palestinesi, non ci sto, o non riesco a piegarmi abbastanza per starci; non avevo pensato quanto fosse difficile piegarsi con le mani legate dietro la schiena; allora mi tirano fuori dalla jeep; poi mi infilano dentro un’altra jeep; poi decidono che sarebbe troppo comodo, allora giù dalla jeep e via a piedi, bendato e con le mani legate dietro la schiena, su una strada sterrata, tutta sassi e curve. Quindi solo a base di spintoni. Non è stato molto bello…. “Vuoi acqua”? ”No, la vostra acqua no”. Arrivati su al loro cancello, c’è una soldatessa un po’ più gentile, mi chiede i documenti: “Ma non li avete già presi?”, mi sistema la maglietta, che pendeva slabbrata da tutte le parti. Finalmente il taglio della benda sugli occhi; “e le mani?” “quelle t’arrangi”, poi mi tagliano anche quella cinghia, “e ora corri se no sparo”; ma vai affanculo! Invece di correre mi sono messo a cercare le mie cose, il passaporto, il cappello e gli occhiali, ma il telefono non c’era più. Torno dall’SS: “Ma il mio telefono?” “sparisci se non vuoi di peggio”. Allora mi sono rassegnato……
Se mi sono spaventato? Qualche momento di apprensione. Qualche dubbio su cosa poteva succedere.
Ma era il militare quello con le corna spuntate: vedeva benissimo che non mi aveva fatto spaventare. “La prossima volta ti arresto subito!” Intanto ha provato a rimettermi le mani addosso, ma io ho tirato dritto.
Per sera vengo accompagnato dal “mayor”. Uomo impegnatissimo, una volta mi aveva risposto (su almeno 4 chiamate fatte per cercarlo), ma rinviandomi subito al “breakfast” delle sei e mezzo, e poi ospitandomi per la notte: almeno per la sera avrebbe avuto più tempo. Prima andiamo insieme a questo breakfast (eftar, rottura del digiuno) in una serata di Ramadan, che vuol dire che un uomo di buona volontà invita tanta gente, sempre nell’ottica di una forma di operare per il bene e accorciare le distanze tra chi ha di più e chi ha di meno.
Altra cosa è la profonda democrazia in queste cene: ricchi o poveri, tutti fanno la stessa cena. Poi torniamo a casa, il mayor rimette gli abiti tradizionali e passa a intrattenere non so quanti gruppi di persone, sempre offrendo the, sempre discutendo sul problema dell’acqua. Raccontandogli che sono stato fermato e malmenato dai soldati, alza le spalle: capita sempre, anche lui ha un figlio in galera!
30 luglio 2011
Di pomeriggio invece a Iraq Burin (5 km a sud di Nablus), altro paese assediato dagli occupanti. I militari tengono camionette sulle strade per impedire agli internazionali di salire in paese ad aiutare, per cui siamo saliti correndo in mezzo alle balze e agli ulivi….. e non ci hanno beccato! Poi verso le sei si è raccolta la gente del paese e siamo saliti verso la collina di fronte, la cui parte superiore è occupata da una colonia che ha preso abusivamente pezzi di terra palestinesi. Quando chiedo come è possibile, spiegano che gli imbrogli risalgono ancora all’occupazione ottomana, per cui puoi continuare a fare tutti i ricorsi legali che vuoi, ma rimane il fatto che il più forte occupa. Noi siamo saliti con megafoni e un bel gruppo di gente, ma oggi la soldataglia si è limitata a guardarci dall’alto; altre volte invece hanno bombardato le manifestazioni con i lacrimogeni.
E come si occupano le case a Gerusalemme?
Sheik Jerrah è un enorme quartiere a Gerusalemme Est, fatto di palazzoni, compreso quello dell’ONU, in mezzo al quale c’è un avvallamento; qui nel ’48 il governo Giordano e l’ONU hanno costruito delle case per i rifugiati cacciati dai sionisti, promettendo documenti legali di proprietà entro tre anni. Non sono arrivati, fino all’occupazione del ’67, per cui i palestinesi non sono proprietari a tutti gli effetti delle loro case e ogni scusa per buttarli fuori è buona; se una casa viene lasciata vuota, anche solo per andare a trovare amici, viene occupata dai sionisti che vanno sempre in giro come se fossero a caccia!
Come ISM avevamo una tenda nel cortile di una casa, a Sheik Jerrah, la cui parte anteriore è stata occupata dai sionisti, con una sentenza della Corte che la dichiara di proprietà dei sionisti “da sempre”. E nel novembre 2020 stanno rischiando la definitiva cacciata dal quartiere, con l’esproprio anche della parte di casa più antica.
Quante volte sono stato a manifestazioni che cercano di arrivare ai propri terreni! Molto spesso incontri anche la dichiarazione di avere chiuso una zona definendola zona militare, sempre a solo piacere dei soldati, per impedire qualsiasi manifestazione o anche intervento di noi internazionali.
Comincio dalla fine: verso le dieci di ieri, sabato sera, è stato rilasciato Jude, mio compagno di avventure in questo momento. Ma cosa era successo? Alle nove di questa mattina siamo andati allo stesso campo di sabato scorso, a Beit Ommar. Veramente gli organizzatori palestinesi avevano in mente anche un’altra idea: vicino al campo i coloni hanno da poco messo una bandiera e una altalena: il primo segnale che, se glielo si lascia fare, dopo diventa un pezzetto di colonia nuova; comunque non siamo potuti arrivare alla bandiera.
Mentre alcuni di noi cominciamo a togliere i tronchi della vigna vecchia e altri contadini si mettono a bruciare fratta e togliere sassi, compare una pattuglia, ben numerosa, nel solito assetto di guerra. Si precipitano su di noi e sembra che il problema sia il nuovo terreno dove stavano spietrando e bruciando sterpaglia. I soldati cominciano a spintonarci fuori di lì; noi torniamo più giù, nel campo con i tronchi della vigna. “Va bene”, dice uno degli anziani, “torniamo al lavoro”. E così io e Jude torniamo ai legni. Non facciamo in tempo ad afferrare due tronchi ciascuno che i soldati ci saltano addosso dalla terrazza superiore. All’inizio sembrava che partissero per prendere me, poi hanno optato per quello più giovane, gli saltano sopra in cinque, lo piegano con la forza, lo ammanettano; dicono che ci trovavamo in zona militare, avevano un foglio di carta che però nessuno ha potuto leggere nemmeno da lontano.

Jude viene portato alla Jeep all’interno della colonia. Intorno alle tre jeep, si sta ora radunando una folla di coloni; se rilasciassero Jude adesso, rischierebbe di venire linciato! Nel nostro gruppo ci sono anche due bambini; loro sono sempre coraggiosissimi; oggi si infilano nella maglietta le aste di due bandiere palestinesi ciascuno, che sventolano sopra le loro teste e vanno a ridosso dei soldatacci, che li strattonano e vorrebbero arrestare anche loro! Intanto gli altri veniamo ancora spintonati per lasciare tutta la zona. Sulla strada ci raggiungono anche i quattro contadini che nel frattempo avevano fatto finta di continuare a spietrare; viene inscenato un ballo e un canto; trascina tutti un bell’omone barbuto con cui avevo chiacchierato sabato scorso: è stato a lavorare in Brasile per un po’ di anni, masticava il portoghese e così eravamo riusciti a comunicare un po’. Ma oggi saltano addosso anche a lui, lui si butta per terra, con la solita cattiveria lo girano sulla pancia e lo ammanettano rompendogli un polso, così devono chiamare un’ambulanza (gridare come se ci fosse una frattura è un sistema usato continuamente per interrompere la violenza dei soldati, non possono sapere se è vero o no, ma intanto rallentano la loro cattiveria). Cerchiamo di parlare con i soldati, ci dicono che tra poco Jude verrà rilasciato. Poi tornano: no, non lo rilasciano, lo portano alla stazione di polizia. Allora ci avviamo a piedi attraverso i campi verso il paese di Beit Ommar. Tornano le jeep con i soldati a spintonarci per farci andare via più in fretta. Finalmente i palestinesi ci chiamano un taxi, che porta a casa un bambino e l’anziano che ha organizzato la manifestazione, e noi, Aida e io, cominciamo il nostro calvario per stazioni di polizia e caserme militari.
Avevano detto che Jude era nella stazione di polizia a nord di Beit Ommar, sotto la cui giurisdizione si troverebbe il paese. A riceverci nel parcheggio della polizia una visione direi infernale: sono allineati cinque di quei mostri di cui si è sentito parlare e che sono i caterpillar demolitori (tipo quello che ha schiacciato Rachel Corrie, la volontaria americana di ISM uccisa nel 2003); sono proprio spaventosi: cingoli altissimi, una pala alta due metri, la cabina ad almeno quattro metri da terra, degli orribili rostri posteriori…..
Ci dicono che Jude non è lì. Sono anche cortesi: telefonano in giro e ci dicono che è alla caserma di Hebron. Allora torniamo sulla strada principale, e prima che arrivi un service, si ferma una persona gentile (un dottore) che si offre di accompagnarci: ha capito al volo che se delle persone non israeliane (Aida ha messo una Kefia) escono da quel bivio, hanno sicuramente problemi con la polizia; ci carica sulla macchina, ci accompagna alla stazione di polizia di Hebron e dice che ci aspetta! Tentativi di trattare e di capire. Jude non è neanche qui. Ma è qui che ci rendiamo conto che con lo stesso numero ti rispondono sia la polizia israeliana che quella Palestinese (quando si dice la cooperazione…). Un poliziotto stranamente gentile si impegna a farci telefonare se lo portano lì. Il nostro amico dottore ci accompagna fino a casa: incredibile la solidarietà che si costruisce intorno ad un arresto. E ora al telefono: polizie, caserme, comandi militari. Finalmente viene fuori che Jude è ancora alla base militare dove è cominciato tutto. Saltiamo su un autobus e corriamo là.
Quando arriviamo il piantone va a chiamare il suo ufficiale superiore, che ci garantisce che entro un quarto d’ora lo liberano, “però non dovete aspettare qui, andate sulla strada principale”. E invece non arriva! Torniamo in caserma: c’è stato un contrordine della polizia, “lo portiamo alla polizia di Hebron, tra cinque minuti andrà via”. Allora aspettiamo sulla curva e dopo un po’ passa un enorme cellulare: sono in tre! Jude ci vede e si rincuora; telefono subito a quelli della seconda manifestazione di Beit Ommar, e apprendo che anche lì hanno arrestato due internazionali e sono con Jude! Torniamo sulla strada, c’è meno movimento di prima, si ferma un taxi che aveva su una persona sola e ci porta di nuovo alla stazione di polizia di Hebron. Di nuovo gentili: “è arrivato, ma ora deve essere interrogato, gli diremo di telefonare appena si sa se è libero o in arresto”. Consegniamo il passaporto di Jude, che non lo aveva con sé al momento dell’arresto perché era rimasto nella borsa raccolta da noi.
Tra le altre telefonate del giorno, c’era stata anche quella al consolato inglese e a un avvocato che ogni tanto lavora per ISM.
Finalmente arriva una telefonata: è l’avvocato, che dopo le spiegazioni di Aida al telefono, aveva chiamato la polizia, elencando le irregolarità commesse dai soldati e su cui avrebbe fatto causa: numero di ore di detenzione in caserma, mancata concessione della telefonata, altro. Risultato: ora Jude è libero! Saltiamo su un taxi e si va a cercarlo, è uscito ma non si sa dove lo hanno lasciato.
Alcune persone escono da un negozio per aiutare, cammino mezz’ora da una parte e dall’altra, il telefono di Jude, lo abbiamo sentito per un momento, non prende già più. Finalmente Jude arriva in un posto conosciuto. Trova una persona che spiega al nostro taxista dove si trova (alla fine era stata la polizia ad accompagnarlo). Eccolo! Pesto ma felice. Racconta che lo hanno lasciato legato nella jeep con un soldato che gli ha sbattuto ripetutamente la faccia contro il sedile davanti e intanto gli dava pugni sulla nuca, gridando: ti ammazzo. Nessuno sa chi è stato e nessun soldato “gentile” ha aiutato ad identificare l’aguzzino! Jude è riuscito a farsi fare un referto medico, in ebraico. Ma pare che gli sia rimasto solo un grosso bozzo dietro la testa.
Ogni tanto è importante ricordare come i sionisti si sono insediati in Palestina e che mezzi hanno usato per cacciare gli “indigeni”
55° anniversario del massacro di Kafr Qassem
Il paese, solo Palestinese anche se siamo nella zona detta ’48, subito al di là del muro, è strapieno di gente: siamo qui per la commemorazione di una strage spaventosa: qui, nel 1956, hanno massacrato 49 palestinesi che rientravano dal lavoro agricolo, compresi vecchi donne e bambini. I sionisti volevano obbligare i palestinesi ad andarsene, volevano una terra libera, senza gente; siamo nel ’56, c’è la guerra con l’Egitto, la strage può passare inosservata. Durante la giornata decidono come operare: da stasera alle cinque, coprifuoco; chiunque sarà in strada dopo quell’ora verrà ucciso! Teoricamente chi è fuori a lavorare e necessariamente ignora il nuovo decreto, verrà accompagnato a casa; invece vengono massacrati proprio man mano che rientrano dal lavoro nei campi. Qualcuno si salva: uno saltando un muretto mentre gli sparano, uno, ferito, correndo a quattro zampe in mezzo a un gregge che passa.
29 ottobre 2011
2) Ambientalismo e extinction/rebellion
Sempre Nasri: Crisi economica internazionale: “se peggiora, sarà Tel Aviv nei guai, è una macchina infernale che divora soldi ed energie. Noi arabi possiamo resistere molto di più, ci siamo abituati”.
7 ottobre 2012
L’appuntamento sarebbe stato per il mercoledì mattina, a Gerusalemme, e così ho gironzolato un intero pomeriggio per i mercati della città vecchia. Quartieri contorti, stradine che salgono e scendono, venditori di tutto, comprese le zone con gli arredi sacri. Ci incontri anche un prete (italiano) con una grossa croce in spalla, che cammina nei vicoli, tirandosi dietro una schiera di oranti e di giaculatorie….
E’ divertente in Israele il tocco di modernità anche nei mercati: alcune intersezioni del mercato sono attrezzate con grossi condizionatori, buttano aria fredda nella parte alta di un incrocio di strade del mercato, strade che sono coperte da volte fatte a vetri: dove vada il fresco non lo so proprio. Lo spreco di energia che ho visto qui è assurdo……
30 luglio 2011
Ora poi siamo arrivati alla crisi ambientale, così ben richiamata da quelli di Extinction/Rebellion.
Se non ci ribelliamo rischiamo l’estinzione.
Credo che Israele raggiunga il massimo consumo di energia pro capite, ancora più degli States, infatti anche a Tel Aviv nell’inverno pre Covid erano state forti le manifestazioni degli studenti, ben più coscienti dei loro governanti. Gli studenti si erano mossi prima appoggiando l’idea dei Fridays for future e poi Extinction/Rebellion, con una manifestazione convocata a Tel Aviv per il 17 maggio 2019, che chiamava a tolleranza non violenza e amore.
Appunto come diceva Nasri, più alto è il consumo energetico, più vicino è il collasso.
Quanto poi all’ambientalismo israeliano, tutti sappiamo come si vantano delle loro aziende all’avanguardia nel rispetto dell’ambiente.
Ma:
scriveva Maya da Nablus, il 10 ottobre 2012:
Dopo aver salutato la famiglia di Murad, il nostro referente della zona ci porta a vedere una enorme fabbrica israeliana dietro una collina che scarica proprio in un ruscello vicino e che percorre campagne e villaggi. Murad ci spiega come molte persone che vivono in quella zona si sono ammalate di cancro e lo stesso gli animali che mangiano l’erba contaminata dall’acqua degli scarichi.
Bello essere ambientalisti dentro il proprio recinto, e scaricare nel terreno circostante! Facile anche tenere bassi i costi, se non c’è da pensare allo smaltimento delle acque reflue. Pensiamo che quello visto da Maya era solo una cosa provvisoria, che avrebbero sistemato?, nooo otto anni dopo casomai è peggio:
dal sito Rete Italiana ISM
Middle East Eye – Shatha Hammad
Le acque reflue non trattate hanno distrutto il suolo dei villaggi palestinesi, causando spesso la morte di ulivi secolari e la perdita di mezzi di sussistenza.
Abdullah Maarouf si prepara particolarmente per recarsi nel suo uliveto in questo periodo dell’anno, l’inizio della stagione della raccolta delle olive in Palestina.
Quest’anno, però, il 55enne Maarouf è costretto a rimanere seduto a casa.
Maarouf vive nel villaggio di Deir Ballut, nel governatorato settentrionale di Salfit, nella Cisgiordania occupata.
Dice che una volta la sua terra era “un paradiso”. Oggi è diventata una palude di acque reflue, a causa delle acque reflue che scorrono dall’insediamento illegale di Leshem nelle vicinanze.
Maarouf e la sua famiglia di 50 membri possiedono 20 dunams (due ettari), che ospitano circa 400 ulivi, alcuni dei quali risalgono al periodo romano. I loro alberi producono circa due tonnellate di olio d’oliva ogni anno.
“Non possiamo più raggiungere la nostra terra, né possiamo raccogliere le olive. Le acque reflue degli insediamenti hanno saturato completamente la terra “, dice Maarouf a Middle East Eye.
Gli insediamenti israeliani illegali scaricano ogni anno milioni di metri cubi di acque reflue in Cisgiordania.
Una grande quantità di acque reflue è costituita da liquami non trattati che fluiscono nelle valli palestinesi e sui terreni agricoli.
Maarouf spiega che l’anno scorso è stato installato un grande tubo per andare da Leshem alla sua terra e ad altri appezzamenti nelle vicinanze. Con l’avvicinarsi della stagione della raccolta delle olive, Maarouf afferma che la quantità di acque reflue pompate nella sua terra è aumentata.
“Se continuano a pompare le acque reflue sugli ulivi, tutti gli alberi moriranno e perderemo la nostra principale fonte di reddito”, continua.
21 ottobre 2020
Le risorse idriche della zona vengono tutte usate da Israele, che lascia qualche goccia ai Palestinesi: le falde acquifere vengono utilizzate fino al 50% in più di quanto si rinnovino. Anche l’occupazione del Golan Siriano non è casuale: lì sono le sorgenti della gran parte delle acque che scorrono in West Bank. Quanto può durare? Se torniamo a Tuba, dove ho cominciato questo scritto, i Palestinesi dispongono di 30 litri di acqua al giorno a testa, contro i 400 litri al giorno a testa che arrivano e vengono usati a Havat Ma’on. Il fiume Giordano e il mar Morto stanno collassando.
3) militarismo e paura
Come nasce una colonia in West Bank? Con dei container depositati su una collina, seguiti poi da prefabbricati: questo modo è illegale anche per la legge Israeliana, ma l’out post (così lo chiamano) non verrà demolito e piano piano crescerà e verrà riconosciuto. Nella stessa zona se i Palestinesi fanno un accampamento di pastori, magari con tende ricevute dall’ONU e pannelli solari di una ONG europea, questo verrà demolito.
Ma i coloni che si insediano in quel modo rappresentano il loro vero modo di fare, si sentono i veri pionieri della fede: fede nella terra promessa e paura degli attacchi Palestinesi. Ecco, a me è parso che la cosa che tiene insieme Israele, più che la fede religiosa è la paura, su questo si superano tutti i disaccordi, ma toglietegli la paura degli arabi e lo stato si sfalda.
Questo insediamento è visibilmente quanto di più illegale ci sia: casette prefabbricate, qualche albero, una vigna, delle serre; ancora non c’è una recinzione, quindi i coloni sono in una condizione di paura, non c’è un posto militare fisso a proteggerli. Intanto le pecore e le capre dei pastori che accompagniamo mangiano che è un piacere. Quando i coloni ci vedono, chiamano una pattuglia, una camionetta con otto soldati; ma questi passeggiano, direi senza cattiveria. Domanda: “chi paga i soldati per proteggere un insediamento abusivo?” Comunque verso le sette e mezzo ci avviamo per ridiscendere. Vedi i soldati dire ai coloni: “Visto? Tutto bene”, e anche loro se ne vanno.
E qui viene il pericolo: uno di questi coloni scatenati parte a inseguirci. Io mi ero fermato a pisciare e sono più indietro; di colpo ce l’ho dietro, con una pietra in una mano e un grosso bastone nell’altra: “Via di qui, voi nazisti”! E giù spintoni e grida nelle orecchie. Intanto Liam sta riprendendo tutto. Sarà quello, sarà la mia tranquillità, quell’esagitato colono non ha fatto niente di peggio, oltre qualche urlata e qualche spintone ancora. Poi scambio di insulti con i pastori che ormai stavano risalendo la collina di fronte.
Alla tenda sono tutti contenti, sono riusciti a far mangiare le pecore e non è successo niente; sicuramente, se non c’eravamo noi, non andava così.

Poi si rimettono a riposo le pecore e le persone, i pastori aspettano di uscire di nuovo nel pomeriggio; ma noi non serviamo più e torniamo a Hebron.
30 agosto 2011
A Ramallah abbiamo fatto due giorni di training: istruzioni per l’uso. I princìpi che ci animano: non violenza, metodo del consenso, e leadership palestinese; poi la storia delle divisioni in zone, A, B e C, ma con i militari invasori che le possono anche spostare. Si tratta di una zona a sovranità palestinese, di una zona mista e di una a controllo delle forze di occupazione. Poi l’addestramento a resistere agli spintoni, agli arresti casuali (di palestinesi), ai tipi di lacrimogeni in uso, ma anche ai proiettili che dicono di gomma, ma che sono acciaio rivestito da un leggero strato di gomma!
30 luglio 2011
Due ragazzi internazionali hanno affittato una macchina israeliana e hanno voluto fare un tour a visitare delle colonie. Si presentavano ai cancelli con una balla: vogliamo vedere come è bello qui, sogniamo di venire anche noi…. Ecco cosa hanno trovato: dentro le colonie girano tutti armati, l’unico discorso verte sulla paura di venire attaccati, per loro è una ossessione! Ma come possono vivere così: su terreni occupati abusivamente, molto dediti alla religione, ma arrabbiati e spaventati, senza nessuna allegria!
20 0ttobre 2011
Ho portato il mio gruppo di nuovi volontari, tre inglesi e un’americana, a Ni’lin, il paese che ha perso più terra con la costruzione del muro. Siamo un bel gruppo, per cui la trattativa con il service a Ramallah è stata facile. Di conseguenza arriviamo presto a Ni’lin e al primo invito ci sediamo a bere il caffè. Anche qui è d’obbligo, come in Sicilia, il bicchiere d’acqua con il caffè, e ci voleva, perché fa già molto caldo. Ci sono varie ragazze, e così si fermano in parecchi a chiacchierare: chi fa vedere le cicatrici delle pallottole che lo hanno colpito, chi parla inglese e dice di lavorare con degli israeliani ad un impianto di depurazione. Ma appena ci avviamo verso l’uliveto dove si riuniscono per la preghiera, arriva un ragazzo di circa 15 anni, che si rivolge subito a me: “Abu, bentornato a Ni’lin. Ma lo sai che due mesi fa mi hanno arrestato? Mi hanno tenuto una settimana a Ofer solo perché avevo filmato la manifestazione. Ma il peggio è che sono venuti di notte, hanno aperto la porta di casa con un attrezzo speciale e me li sono trovati intorno al letto, sembrava un incubo, con le loro facce dipinte di nero, e invece era vero. Ho chiesto di dare un bacio alla mamma, ma mi hanno portato via di fretta, a piedi, per chilometri attraverso le campagne prima di arrivare ad una jeep”. Ho ripensato ad un altro racconto di Nasri a Beit Ommar: anche lì erano andati ad arrestare suo figlio nel cuore della notte, con il solo scopo di seminare terrore, di dimostrare la realtà e la violenza dell’occupazione. “Ero il sindaco, mi potevano chiamare, avrei accompagnato mio figlio in caserma, che bisogno c’era della scenata notturna, con le facce dipinte di nero.” E’ proprio una dimostrazione gratuita di uso del terrore, di sottolineare la condizione di apartheid.
8 settembre 2012
L’esibizione della forza nelle strade, assolutamente gratuita e per questo abbastanza stupida:
Non puoi dirmi come fare il mio lavoro
Così si è ridicolizzato l’ufficiale che comandava un plotone: stavo scendendo da casa per un giro di controllo, quando incontro una pattuglia in assetto da guerra. Sono cinque su ogni lato della strada, imbracciano i loro fucili mitragliatori con il dito sul grilletto, hanno i caschi con la visiera calata, sembrano percorrere la giungla con i colori di guerra. “Ma che fate”, gli dico, “chi state attaccando?” Uno mi guarda ed esita, ”Come dici?” “Non c’è nessuna guerra in corso, cosa fate con questo atteggiamento? C’è in giro solo gente tranquilla”. Allora l’ufficiale si stacca, mi ferma, e con fare severo mi dice: “Non ti puoi permettere di dirmi come fare il mio lavoro, e siccome vedo che non ti piace, vattene da qui, torna al tuo paese”. Io dico ”va bene, non ti arrabbiare”.
Ma siamo all’angolo dove si raccolgono i ragazzi, dove facevamo le partite di calcio, per cui mentre io continuo a scendere e la pattuglia riprende l’assetto di combattimento, dai ragazzi lì radunati si alza un coro da stadio: ”Abu Sara habibi, Abu Sara habibi!” (si potrebbe tradurre: Abu Sara ci è caro!) Io alzo le due mani con il segno di vittoria.
Non sono più riuscito a guardare le facce dei soldati, ma mi immagino che si fossero resi conto del loro essere fuori luogo.
Siamo nei giorni del capodanno ebraico, ci sono soldati dappertutto, dicono per difendere gli ebrei che sono in giro molto più del solito, visto che è festa. Però di solito sono stravaccati negli angoli, sudati nel loro abbigliamento sempre guerresco. Solo quella pattuglia aveva preso un atteggiamento da attacco. Più giù incontro un altro gruppo di soldati fuori posto: in nove, armati come sempre di tutto punto, stanno accompagnando un solo israeliano in giro nella città vecchia! Ridicoli anche loro.
Fatto sta che con queste feste, di nuovo, l’accesso alla Moschea di Abramo è vietato, il check point è chiuso. C’è più movimento dove andiamo noi, al check point davanti all’entrata di Kiryat Arba, il più grosso insediamento israeliano intorno a Hebron. Mi faccio tutte le mattine la camminata fino là, ci vuole ben più di mezz’ora, con la ragazza inglese ultima arrivata. Contro le aspettative è un check point tranquillo, i soldati non fermano mai i ragazzi per aprire le cartelle, come avviene a quello che chiamano “Gilbert check point”. Comunque ci hanno chiesto di monitorare quella zona e lo facciamo quasi tutta la settimana, sia all’entrata che all’uscita da scuola. In questa zona c’è l’enorme costruzione che oramai è stata venduta ad una società israeliana. Quindi controlliamo anche lì.
Nel 2007 l’immobile era stato occupato dai coloni, periodo che ha visto una serie di angherie verso gli abitanti della zona. Ma nel 2008, la corte suprema aveva deciso che non era avvenuta alcuna transazione e i coloni vengono sgomberati dall’esercito, anche se con episodi di guerriglia e grandi casini. E’ questa casa che ora la nuova sentenza decreta regolarmente venduta e i soldi incassati. Dei venditori, qualcuno li dice scappati in Giordania, qualcuno li dice arrestati dall’Autorità Palestinese. Fatto sta che ci si aspetta il rientro dei coloni, con i pasticci che ne possono seguire. Ma per ora non vediamo mai più di due soldati sul tetto, e non sempre. Da notare, casomai, l’autobotte che rifornisce di acqua l’immobile, in un quartiere che non vede acqua da settimane. Da una casa ci chiamano per un the e un frutto, in uno dei passaggi lì davanti. Raccontano appunto il problema dell’acqua e ricordano le provocazioni dei coloni quando erano lì.
29 settembre 2012.
Un’altra cosa su cui mi interrogo sono gli attacchi che i coloni fanno di sabato: ma per lo Shabbat non avevano il divieto anche solo di camminare, in rispetto al “creatore” che si era fermato dopo sei giorni? Evidentemente c’è la deroga che se si attacca il “nemico” anche il sabato è benedetto (devo approfondire).
Così ci spiegava un soldato simpatico: “Lo sapete no, i nostri nemici, i Filistei, il popolo che occupava questa terra e voleva distruggere il popolo di Israele, anche tutti i loro discendenti vogliono ucciderci, per questo dobbiamo difenderci, dobbiamo sparare prima noi, anche se qualche volta sembriamo paranoici”.
7 ottobre 2012
Questo soldatino (sembrava giovanissimo) continuava a vedermi negli orari della scuola, entrata e uscita. “Ma ci siamo noi a proteggere i bambini”, mi dice! “A me pare che proteggete i coloni, non i bambini Palestinesi”, ma lui era proprio gentile quando ha cominciato a spiegarmi la Bibbia e questa conseguenza della discendenza: i Filistei, che risultano una tribù che occupava la zona tra Gaza e Jaffa, e tutti quelli che ne discendono vogliono ucciderci. Chissà dov’è l’automatismo, ma è quello che si insegna nelle caserme e comunque è una delle paure che spiegano una nazione militarizzata. (nella storia vera, dopo un pò di scontri tra Filistei e Cananei (tra questi c’erano i cosiddetti figli di Israele), i due gruppi sono finiti a mescolarsi durante l’invasione Assira)
Sugli attacchi fatti di sabato dai coloni, l’unica spiegazione che trovo a posteriori è che “se c’è una vita in pericolo” tutti gli obblighi dello shabbat decadono: possono riuscire a dire che le pecore mettono a rischio le loro vite? Tutto è possibile con le loro interpretazioni, e capisco sempre di più i rabbini più ortodossi che rifiutano di vedere la Torah modificata a uso e consumo di interessi materiali.
L’uscita dei coloni nell’abituale tour del sabato pomeriggio nella città vecchia di Al Khalil sembra più tranquilla: anziché strisciare lungo il muro con il cordone di soldati che li protegge, vengono abbastanza verso di noi. Subito ci scambiamo un’occhiata con uno che mi viene incontro, visibilmente interessato a comunicare. “Ma perché non venite a fare un giro a Hebron come gente normale, anziché con questo schieramento assurdo?” – “Non sai quanto mi piacerebbe, ma non ci lasciano. Se io voglio vedere Hebron, l’unico modo è venire con i tour del sabato che esibiscono questo stupido esercizio di forza”. Allora è veramente il governo israeliano che cerca di seminare odio e dividere la gente. Se una persona per bene, che non ha niente contro gli arabi, non può muoversi altro che sotto scorta, minacciando gli altri con i loro fucili spianati, vuol dire che si sta cercando di incutere paure e aumentare le divisioni.
2 settembre 2012
4) accordi di Oslo e Autorità Palestinese
L’Autorità Palestinese nasce con gli accordi di Oslo del 1993. Sembra una vittoria, Arafat viene a Ramallah dall’esilio in Tunisia. Ma è il tipico trattato di pace come quelli che facevano gli americani con i pellerossa: il più forte si limita a promettere, mentre il più debole firma una serie di cedimenti. Il governo Israeliano promette di interrompere gli insediamenti in West Bank. La neonata Autorità Palestinese accetta di tutto: in West Bank si usava il dinaro giordano, ora la moneta va unificata ed è lo shekel israeliano. Imporre la propria moneta è assolutamente una mossa coloniale. Il commercio palestinese passerà attraverso Israele che incasserà le tasse e poi le girerà all’AP. I prezzi del gasolio diventano legati a quelli israeliani, la Palestina non può più comprare carburante dalla Giordania e amministrare i prezzi in proprio. Tutti i pagamenti e i finanziamenti per l’AP passano attraverso il governo Israeliano che così tiene per il collo l’AP. Ciliegina finale: la sicurezza è coordinata insieme; vuole dire per esempio che gli uffici di polizia sono congiunti, come avevo constatato quando cercavamo di rintracciare Jude. Nei fatti, il paese occupante è riuscito a togliersi il compito di tenere l’ordine, per esempio nelle città, delegandolo all’Autorità Palestinese, mentre si conserva solo un ordine al di sopra, che gli permette di fare di tutto e dovunque, gli permette di intervenire con la violenza per gli arresti, gli permette di distruggere case e quartieri, di bloccare strade, curando solo gli interessi dei propri coloni, ma essendosi alleggeriti del dovere dell’occupante che è quello di garantire l’ordine e i servizi nelle zone occupate.
Compare la divisione della West Bank nelle tre zone A B e C, in cui man mano il controllo Palestinese diminuisce e aumenta quello Israeliano.
Rientrando a Hebron, andiamo all’uscita di scuola a Bowheri. Si avvicina il voto all’ONU (la Palestina ha chiesto all’ONU il riconoscimento come 194° stato) e c’è un po’ di timore sul comportamento dei coloni, ma tutto procede tranquillo e i bambini tornano a casa giocando per strada.
ll 21, mercoledì, è il primo giorno delle scadenze ONU: festa a scuola, e tutti chiamati alle manifestazioni.
Molto prima dell’appuntamento delle 11 davanti al municipio, i ragazzi vengono in corteo verso il check point di Shuhada street, ma li attendono la polizia palestinese e l’esercito israeliano con i lacrimogeni; così vediamo i primi lacrimogeni sparati per allontanare studenti. Intanto si raccolgono a migliaia nella zona del municipio. Manifestazione disordinatissima: un gruppo viene da una parte, uno scende in direzione opposta, tutti gridano e cantano; gruppi di studenti, gruppi di funzionari. Credo che tutte le attività siano ferme. Le strade bloccate. Ogni tanto c’è un carosello di macchine imbandierate: bandiere palestinesi e altre con su scritto “UN 194esimo stato”.
Ora i ragazzi sono tornati nella zona del check point e iniziano una sassaiola verso i soldati. Forse qui non va avanti per molto, ma per le strade vicino al mercato si continua tutto il pomeriggio. I ragazzi sono tallonati dalla polizia palestinese, ma a metà del mercato, dal loro varco, escono i soldati israeliani, ben agguerriti. Il primo scontro è sulla strada del mercato, una sassaiola colossale contro i soliti lacrimogeni, che, essendo in città, si disperdono di meno nell’aria. I ragazzi si ritirano sulla parallela superiore, con i soldati che salgono a fronteggiarli: di nuovo sassaiola contro lacrimogeni. E’ pieno di gente che assiste; noi siamo invitati su una terrazza da cui si vede meglio. Però i soldati non hanno molta voglia, hanno fame; gli portano un rancio, ma poi lo riportano indietro: hanno deciso di ritirarsi e lasciare finire il riordino alla polizia palestinese. Questi li abbiamo visti anche rilanciare le pietre ai ragazzi!
Perché queste reazioni violente? Sono certamente tutti insoddisfatti del modo in cui vanno avanti le cose: Abbas è stato messo lì dagli americani, eletto poi in elezioni in cui vinceva Hamas, ma i parlamentari eletti con Hamas sono stati tutti arrestati! Questo vuol dire che il governo della PA è illegittimamente in mano a Abbas e ai suoi. La corruzione della Palestinian Authority è risaputa, si sa che i funzionari pubblici devono andare alle manifestazioni se vogliono lo stipendio, il mandato di Abbas è strascaduto e nessuno indice elezioni. Ma intanto ogni iniziativa va sostenuta, anche la presentazione di Abbas all’ONU.
Mentre a Hebron c’erano questi scontri, a Ramallah grandi manifestazioni pacifiche. Gli scontri grossi sono stati a Qalandia, vicino al principale check point di accesso a Gerusalemme. Qui gli shebab organizzano vere e proprie battaglie; una delle novità sono i copertoni vecchi incendiati e fatti rotolare verso i soldati. Ci torneremo dopo, visto che venerdì pomeriggio eravamo lì anche noi.
La sera dopo vado dai miei pastori, questa volta con una ragazzina di New York che a scuola ha fatto arabo come lingua straniera! Le piace e prova a farsi capire, anche se la lingua parlata in Palestina è molto diversa. Anch’io comincio a dire delle frasi semplici…..


Pecore al pascolo la sera, appena arriviamo; sulla strada ci eravamo fermati a raccogliere i genitori di Jamal da una parte, a caricare degli scarti vegetali per le pecore, a portare un giocattolo ai bambini della sorella. Al pascolo la solita scena: il soldato di guardia che si affaccia subito con gestacci e un bel gruppo di coloni minacciosi che si allineano sulla collina, pronti a scendere su di noi se ci permettiamo di far salire un po’ di più le pecore.
Cena, chiacchiere per quel che si riesce, e sonno, ma Jamal è preoccupato: un bambino non sta bene e i soldati fanno avanti e indietro intorno alla torretta. Voglio far vedere il forno del pane alla mia compagna, ma non mi ricordo più qual è la tenda, così chiedo a Jamal: “at tannur?”, dice lui (tannura è la parola che si usa ancora da noi in Sicilia per la cucina a legna!).
Alla prima luce lo chiamo io: andiamo! Prima ancora di avvicinarci alla zona vietata arriva giù il soldato: evidentemente troppo infreddolito, si fa la sua passeggiata. Parla inglese. Quindi gli dico: “Siete il potente esercito di Israele, la famosa IDF, e avete paura delle pecore!” “Come? No che non abbiamo paura!” “E allora perché le pecore non possono andare in giro come fanno da sempre? Non avete tutto recintato appunto per difendere i coloni e le loro proprietà? Avete paura che una pecora sia riempita di tritolo?” “No, certo che no!” “E allora?” “Negli ultimi anni ci sono stati dei coloni uccisi”. “E allora avete paura di un pastore tutto occupato a guardare le sue pecore”? Non sa cosa dire se non che è necessario stabilire un limite, ma questo limite è già stabilito dalla loro recinzione, invece i soldati pretendono di tenere liberi almeno trecento metri in più!
Più tardi si avvicina a noi anche il gregge del fratello di Jamal, e il soldato ridiscende. Stavolta gli dico: “Perché anziché star lì a far niente non cammini con le pecore? Così garantiresti la sicurezza con il tuo fucile!” E’ evidente che lui è un ragazzo che potrebbe anche rendersi conto della realtà, ma se il suo atteggiamento fosse più tollerante i suoi coloni lo picchierebbero. Sono loro le persone veramente insane di mente, con la pretesa di cacciare tutti i palestinesi e distruggerli!
E’ arrivato un gruppetto di tre nuovi internazionali, fanno il training giovedì perché il mercoledì non sono potuti arrivare (la battaglia di Qalandia aveva bloccato la circolazione). In tre andiamo a Sheik Jerrah, poi venerdì io mi prendo i nuovi e andiamo a Ni’lin, mentre gli altri due che sono con me vanno a Nabi Saleh. A Ni’lin, dopo la preghiera, hanno sempre una sorpresa: questa volta hanno preparato un catafalco con scritto “politica US” e “veto US”, che viene issato sul muro e incendiato con grandi urla di trionfo. Ci siamo solo noi come internazionali e un gruppo di israeliani. I soldati sembravano tranquilli, infatti dalla zona centrale non parte alcun lancio di lacrimogeni, nonostante il fuoco sul muro ed un po’ di sassi lanciati.


Ci spostiamo oltre. Circa duecento metri più avanti il muro si interrompe e la chiusura della zona continua con reti e rotoli di filo spinato, ma qui almeno i soldati si vedono e si possono bersagliare meglio. Arrivano un blindato e due jeep, cominciano i tiri di sassi, e subito i lacrimogeni. I lanciatori riescono a restare nascosti per un po’ sotto un muro di sostegno, ma i soldati bombardano dappertutto per disperderci. Tra i miei nuovi c’è una svedese a cui fanno una intervista in diretta, via telefono, ad una radio svedese, e un giapponese molto interessato a vedere cosa succede. Quando ci ritiriamo sotto gli ulivi della partenza (è il punto di ritrovo anche al ritorno) annunciamo di voler andare a Qalandia, quindi Mohammed, uno degli organizzatori, ci dice che ci pensa lui a cercare un “service” per andare a Ramallah, “ma intanto”, ci dice, “non potete andare via senza prendere qualcosa”. Ci porta a casa sua e offre the, frutta e cetrioli, un biscotto: “Mi dispiace, non avevo previsto che venivate, ma fate come a casa vostra”. Il giapponese non riesce a crederci: non ci conosce e ci tratta come se ci conoscesse da sempre!
Mentre aspettiamo il service, ci fa vedere dei video degli anni passati, quando è stato pestato e arrestato durante la costruzione del muro, quando hanno sparato in una gamba a un ragazzo fermo e legato! Follie di questi soldati.
Finalmente arriva il service, è a tariffa fissa e visto che ha perso tempo e ci ha fatto aspettare, ci porta tutti fino a Qalandia allo stesso prezzo.
Qui è in corso una vera battaglia: siamo sulla strada principale, a doppia carreggiata, con l’entrata verso Gerusalemme e il traffico che scende verso sud, per Hebron. L’esercito è sistemato tra blocchi di cemento su metà della strada, gli shebab sono un po’ più su e si barricano dietro delle protezioni improvvisate: una vecchia porta, dei pannelli di legno, dei fusti metallici. Da qui partono sassi, a mano e con la fionda, di là sparano rubber bullets. Per ore i soldati non si preoccupano di conquistare terreno, è come se stessero solo lì in una gara di tiro al bersaglio, e ne fanno di centri! C’è un via vai di ambulanze che scendono in retro, caricano i feriti e risalgono. Mentre l’ambulanza scende, anche i soldati interrompono i colpi e gli shebab si preparano e si riorganizzano: dopo c’è sempre un bel tiro di sassi.
I feriti raramente sono gravi: con un po’ di massaggi per riprendere la circolazione del sangue, abbiamo visto ragazzi tornare subito al loro posto! Due giorni prima avevano raccolto tutti i copertoni della zona; oggi ce n’è solo uno e non riescono a farlo rotolare verso i soldati, immagino invece l’effetto di due giorni prima, con i copertoni infiammati che rotolano verso i piedi dei soldati!
Intanto un po’ di traffico viene lasciato scorrere su una carreggiata disposta a doppio senso; noi siamo su questo lato e anche se i sassi partono anche da qui (con la fionda), si vede che non stanno sparando verso di noi; comunque si riesce sempre a vedere quando un soldato mette a terra un ginocchio, prende la mira e spara. I ragazzi li provocano continuamente, sbracciandosi come a dire: prendimi se ci riesci! Un bel po’ di ore sono andate avanti così, con gente che man mano si assiepava ad una certa distanza per assistere. Poi, verso sera, decidono di far sgombrare: lacrimogeni lanciati a ripetizione (hanno anche un fucile a ripetizione per i lacrimogeni), fino ad ottenere una coltre che copre tutta quanta la strada. Siamo in mezzo a case, il vento disperde poco, si può solo scappare, e in fretta!
La giornata prevedeva anche assembramenti, come già fatto il mercoledì, così i miei nuovi e anche tre svedesi arrivati la settimana prima me li porto via; non bisogna esagerare con il mettersi in pericolo. Il giapponese devo anche richiamarlo perché non stava nel gruppo.
Cerchiamo un service che risalga a Ramallah; ci carica in dodici al posto dei sette regolari, ma oggi tutto si può fare. A Ramallah ci sono incredibili caroselli di macchine imbandierate, come da noi per le partite di calcio, ma qui molto più pazzi: non solo fuori dei finestrini, ma persino in piedi sul tetto delle macchine.
Nella piazza centrale c’è il grande schermo, prima comizio e canti, poi il discorso di Abbas all’ONU in diretta: la Palestina ha diritto ad un suo Stato! Se l’è cavata bene, dalla nostra piazza applausi, urla e qualche fischio ogni tanto; quando cita Arafat le ovazioni sono incredibili.
Ai palestinesi piace questo modo di fare casino e di festeggiare, questa voglia prevale su ogni altra considerazione. E’ pieno di gente che sbandiera sui tetti, seduti sui cornicioni dei palazzi, è una visione incredibile; non è caduto nessuno, solo una telecamera, che comunque ha fatto un ferito!
E nel resto della West Bank? A Nabi Saleh c’è stata pure una battaglia a suon di rubber bullets, anche qui bersagliamento continuo da parte dei soldati, e non solo su chi tirava sassi. I nostri internazionali hanno fatto fatica a venirne via, perché i soldati sparavano dappertutto. In un villaggio vicino a Nablus i coloni attaccano delle famiglie; i palestinesi rispondono, l’esercito interviene e spara, sui palestinesi beninteso, con un morto e almeno cinque feriti! A Hebron un incidente stradale, con due morti israeliani: “è colpa dei palestinesi”! Sempre a Hebron, i coloni attaccano, una macchina investe e uccide un bambino di otto anni!
Queste battaglie fanno pensare che non si è rassegnati! A quando la terza intifada?
2 settembre 2012
Martedì pomeriggio è arrivata una chiamata: stanno demolendo case a Beit Ula, piccolo centro agricolo a ovest di Hebron. (probabilmente siamo in zona B, controllo misto, cioè del più forte!)
Io parto di corsa, Aida e Jude, mi raggiungeranno appena possibile. Salgo su un bus con studenti che vanno a casa, trovo gente che mi chiede perchè vado a Beit Ula, non è abituale vedere internazionali su questo bus. Spiego, qualcuno sa o ha sentito; quindi, mi dicono, voglio andare a verificare, fare foto, scrivere: bene grazie! L’autista si impegna a portarmi il più vicino possibile.
Mi lascia nelle campagne, vicino ad una fabbrica artigianale; entro, il principale parla un po’ di inglese, chiama un suo conoscente che è tra i danneggiati e gli dice: “Ma tu non vai più là? c’è da portare uno”. Quello arriva subito e mi accompagna. Hanno spianato una terrazza con 150 ulivi piantati, la cisterna, un fabbricato a servizio dell’azienda; un’altra casa è rimasta in piedi perché la gente si rifiutava di spostarsi. Poi mi mandano più giù: un’altra costruzione, un’altra cisterna: restano solo pietre, terra e ferraglia. Più giù ancora, una cisterna, un ricovero per le pecore, una tenda in cui vive una famiglia con cinque figli, un locale in muratura, tutto schiacciato.
Intanto sono arrivati Aida e Jude, ci fanno vedere che una costruzione era del 2005, perché ora distruggere tutto? Trovare una simile distruzione mi attanaglia il cuore! Cosa faremmo noi contadini in Italia se un ordine superiore ci distruggesse i sacrifici di anni? Avevano una carta con ordini di demolizione. Si tratta di aziende agricole funzionanti. C’è quello che raccontava di controllare l’impianto di irrigazione degli ulivi tutte le notti e ora non ha più niente; se la giustificazione per la distruzione è la vicinanza al “muro”, sembra assurdo, siamo a più di un km dal muro.
Il pastore raccoglie la famiglia sul trattore e si avvia mesto da qualche parente, gli hanno anche fatto scappare le pecore! Piano piano tutti si rassegnano, la vita continua, Inshalla.
Ma ci vogliono a casa loro; il primo, Kamal, che ha accompagnato Aida e Jude, ci vuole tenere anche a dormire: “almeno, se non vi fermate a dormire, venite a conoscere la mia famiglia”; “the o caffè”? Donne e ragazzi stavano pulendo uva passa, chicchi grossi e dolcissimi, otto figli maschi e quattro femmine, ci vuole una bella azienda a crescerli tutti. In tutte le occasioni io dico che anch’io sono contadino. Dopo un pò, ci concede: “Se volete possiamo andare”, ma bisogna tornare indietro a recuperare le borse di Aida e Jude.
Nella casa di fianco a dove sono le borse ci stanno aspettando in sette o otto, tra cui quello che aveva accompagnato me, con un vassoio di frutta; uno mi ha visto in televisione (avevo fatto un’intervista con dei ragazzi per una TV locale), tutti ci vogliono conoscere. Ora possiamo andare? si si… ma un’altra sosta: guardate il mio giardino: un altro the, ma venite dentro, ho realizzato un piccolo impianto: proiettore e schermo quasi da cinema, ci proietta un mixage con Arafat, tanto, e Abu Mazen, poco. Ma a quest’ora non ci sono più mezzi di trasporto pubblici: non c’e’ problema, chiamano un loro amico e ci accompagna in macchina a Hebron. Ora hanno i nostri numeri e ci chiameranno appena succede di nuovo qualcosa. Che differenza tra questa gente accoglientissima e gli ebrei musoni!
7 ottobre 2011
E’ stata la settimana delle rivolte sociali. Ero stato a Ramallah, ma quando torno a Hebron, eccoci imbottigliati in una colonna di camion che strombazzano. In qualche modo si aggira la zona, ma il centro è completamente bloccato: ruspe e scavatori, anche taxi e service. Tutti contro il caro prezzi, contro la politica di Fayyad (attuale primo ministro). Accordi precedenti legano indissolubilmente l’economia palestinese a quella israeliana, senza possibilità di scelte diverse, meno impopolari. Qui la benzina potrebbe costare molto meno, come in Egitto e Giordania, e invece c’è l’obbligo di seguire l’economia israeliana. E’ proprio vero che l’Autorità Palestinese è come la longa manus di Israele. Nel mercato qualcuno si lamenta che questi scioperi peggiorano ancora di più le loro già scarsissime vendite. Qualcuno dice “speriamo che anche qui si faccia una primavera araba”.
Le proteste sono continuate. Ieri andando a Ramallah siamo rimasti fermi per un rogo di copertoni che ha bloccato il traffico nelle due direzioni. Ma non bastava questa forma di protesta, ci si sono messi anche gli israeliani, che hanno attivato un posto di blocco in cima ad una salita, anche loro fermando tutti per chiedere i documenti. Per arrivare a Ramallah, c’è voluto doppio tempo! Secondo Nizar, la protesta rischia di essere una stupida bega tra settori di potere (qualcuno che soffia sul fuoco solo per scalzare Fayyad, ma senza cambiare politica). Invece speriamo che sia una vera rivolta popolare, e che possa portare a dei cambiamenti.
25 settembre 2011
A Ramallah trovo qualche volontario nuovo. Hanno fatto il training, prometto che li accompagno io a Ni’lin. Parlo a lungo con Nizar: dopo le rivolte di due settimane fa, è stato il governo israeliano a chiedere interventi economici americani ed europei per finanziare l’autorità Palestinese. Avevano paura che l’AP non sarebbe riuscita a controllare le piazze. E così il governo Fayyad è riuscito ad abbassare il prezzo della benzina e calmierare qualche altro prodotto, e per ora sono stati revocati gli scioperi. Invece sulla Palestina Nizar ritorna a parlare del bisogno di una economia agricola funzionante: per legare la gente al territorio, per fare in modo che i soldi restino nel circuito interno.
1 ottobre 2012
Maggio 2020: dopo l’annuncio della prossima annessione di pezzi della West Bank, finalmente l’Autorità Palestinese revoca gli accordi di Oslo! Troppo tardi, e abbastanza falso nella sostanza, ora il risultato tragico è il mancato coordinamento con gli israeliani per fare uscire malati da Gaza, con un conseguente aumento di morti e di pazienti che diventano incurabili, economicamente rilevante invece è il mancato versamento dei dazi doganali da Israele all’AP.
Ma avrebbero dovuto dare la disdetta agli accordi di Oslo almeno vent’anni prima, e appellandosi alla comunità internazionale e all’ONU sul mancato rispetto degli accordi da parte israeliana. Avrebbe potuto essere una mossa forte, ma non hanno mai osato, probabilmente perché tutta la dirigenza era legata agli israeliani, sia per il passaggio dei soldi sia per l’effettiva collaborazione. Rendiamoci conto anche che l’Autorità Palestinese non ha ancora mai deciso di sostenere apertamente il movimento BDS.
5) Hebron e dintorni
Hebron è il nome usato dagli ebrei. Per i Palestinesi è al Khalil, “la santa”.
Nelle mie lettere si trovano tutti e due i nomi….
Domenica 1 agosto 2011 ho lasciato Ramallah, in qualche modo la capitale amministrativa palestinese, per spostarmi a Hebron. Già il viaggio è estenuante, perché il bus continua a cambiare strada per evitare i check point, quindi sale e scende attraverso colline che sembrano le nostre colline siciliane: ulivi, vigneti (uva da tavola, tenuta abbastanza bassa, non con tendoni o filari alti come da noi), prugne, pomodori. E’ interessante che nonostante la siccità (non piove da mesi) e nonostante tantissimi fumatori e cicche buttate a caso, non ci siano incendi in giro: è evidente che i nostri incendi sono sempre dolosi…..
Arrivo a Hebron, città di storia antichissima: a conferma di ciò, la moschea contiene i resti sepolcrali (le tombe vere?) dei patriarchi (da Abramo in poi); quindi la rivendicano tutti: per cui ora gli arabi per entrare nella moschea (controllano il 60 per cento della costruzione, contro il 40 per cento gli ebrei) devono passare due check point.
Ieri sera ero lì con un altro e vedevamo benissimo che i soldati israeliani si divertivano a bloccare ogni tanto la girandola da cui si deve passare prima del metal detector. Il sopruso è continuo.


Il mercato si svolge su tanti vicoli come in tutti i suq arabi, ma qui c’è una zona in cui sopra le botteghe degli arabi si affacciano case di israeliani, i quali si divertono a lanciare sassi, rifiuti vari…… quindi ci sono griglie di protezione, ma, come è successo a me, i passanti sono spesso bombardati con getti d’acqua sporca. Pochi passi dopo trovo una pattuglia (presidiano con i fucili spianati anche il mercato): “ci hanno tirato acqua, perché non difendete la gente?” Era come se avessi parlato ad un muro: “via via”.

Tutti questi soldatini hanno un solo pallino: tenere il grilletto pronto, come dovesse sempre comparire un “terrorista”; ma come lo riconoscerebbero? Solo dopo morto, come l’altra mattina con i due ragazzi di Qalandia…. (una incursione di soldati israeliani nel campo profughi ha fatto due morti, due ragazzi che dovevano essere arrestati, ma opponevano resistenza).
Il primo giorno siamo andati a trovare una famiglia che abita nel vicolo; qualche mese fa gli hanno tirato in casa una bomba sonora, che causa scoppi rumorosissimi se all’aperto, ma in casa è distruttiva. Una signora che stava finendo la gravidanza ha perso il bambino, e anche lì non c’è modo di avere riconosciuto qualcosa dall’occupazione. In un’altra casa ci hanno mostrato una stanza superiore dove durante la seconda intifada i soldati sono entrati dal tetto e hanno appiccato il fuoco: sono morti due bambini. Sempre raccontando di quel periodo, un ragazzo che ora lavora con noi dice che di una classe di 30 ha perso 12 compagni!
Ora per lo meno non si muore come prima, anche se l’assedio dei militari è dovunque. I coloni a Hebron sono circa quattrocento, ma per loro ci sono almeno tremila militari. Non solo gli israeliani hanno preso un po’ di case, ma i militari fanno in più delle zone cuscinetto che aumentano le loro zone “di sicurezza”, cacciando la gente.
Oggi è l’anniversario della strage del ’94 nella moschea da parte del colono Baruch Goldstein, con trenta morti e non si sa quanti feriti. Dopo la strage, non è stata punita la comunità ebraica, ma quella palestinese, a cui ora si vieta una parte della moschea, e si continuano a chiudere i negozi arabi; per ora non vediamo molta repressione per via del ramadan. I negozi che sono stati chiusi su Shuahda street, sono stati chiusi con barre di ferro saldate di traverso sui negozi!
Al khalil 18 agosto 2011
E’ finito il Ramadan!
Dopo giorni di esitazione, infatti si diceva che questa luna poteva essere addirittura di 30 giorni, ieri sera alle sette circa sono partite tutte le voci dai minareti; quello di fianco a noi aveva dei ragazzini con voci sguaiate, perché anche l’imam voleva rappresentare l’allegria dei bambini. Ma l’importante era l’annuncio, è finito il Ramadan, prendendo tutti un pò di sorpresa; così la notte è andata avanti con la frenesia degli ultimi acquisti, soprattutto vestiario, scarpe, giocattoli. Le strade di Hebron erano delle montagne di pattumiera: immaginiamo decine di migliaia di persone che comprano alle bancarelle; già queste invadono le strade, poi tutti svuotano le scatole e le lasciano lì. Si camminava su uno spessore notevole di cartone, alzando sempre i piedi per non inciampare, io ho quasi calpestato una bambina che si perdeva in mezzo alle scatole!
Pensavo di trovare più dolci, ma anche quelli ieri sera erano presentati in vassoi, tipo confezione regalo, come non c’erano mai stati; di solito c’erano delle specie di frittelle che venivano prodotte a gran velocità e grandi teglie di pasticceria a taglio, tutte cose per il consumo della sera. Ieri i vassoi preparati con pasticceria mista servivano invece per presentarsi ora nelle case di amici e parenti.
Verso le nove riaprivano anche le bancarelle con le cose da mangiare: felafel in quantità, spiedini di carne ma anche di cipolle e pomodori, con un odore penetrante e le fumate che coprivano i cartoni…… Non so fino a che ora è andata avanti tutta questa confusione, ma sicuramente per gran parte della notte. Non sono sceso a vedere, ma sono certo che tutto è stato pulito: per la festa dell’Aid (chiusura del ramadan) tutto deve essere bello e ordinato.
Oggi tutti cominciano a passeggiare con le famiglie e con i loro vestiti migliori, non sembra quasi possibile che sia la stessa gente della confusione di ieri sera!
Anch’io dunque non mi sono più alzato alle tre di notte, all’ora della preghiera, per la colazione, e oggi ho preso il the a un’ora normale!
Negli ultimi giorni c’è stata più calma. L’ultimo venerdì di ramadan è una cosa molto particolare; per chi va alla moschea di Gerusalemme ci sono valori particolari (tipo indulgenze), per cui la giornata assume connotazioni rilevanti.
Era stata in qualche modo convocata una dimostrazione ai check point intorno a Gerusalemme, con un nome significativo: “bussa alla porta”. Io ero con il mio gruppo al check point di Betlemme. Quando siamo arrivati verso le otto e mezzo c’era già una lunga coda, che è andata crescendo e poi è stata smaltita. Direi che alle undici non c’era più nessuno, ma i soldati non hanno fatto controlli, non ho visto mai una interruzione del flusso dei pellegrini. Gli uomini sopra i quaranta, le donne sopra i trentacinque e i ragazzi fino a dodici hanno accesso libero, gli altri devono esibire un permesso particolare, difficilissimo da ottenere; se non ci sono stati rallentamenti, vuol dire che tutto era in ordine e certo c’era tolleranza. Si parla di 30.000 persone entrate. Quando non c’era nessuno (preoccupati di non nuocere al traffico dei fedeli) è stata inscenata una dimostrazione: prima, preghiera pubblica per chi non era potuto entrare, poi piccolo corteo con tamburi e slogan; i soldati non si sono neanche fatti vedere.
A Qalandia invece, che è il punto di passaggio principale, c’è stato casino. Quando si va a Gerusalemme in autobus, l’autobus ti fa scendere, vai ai controlli (bagaglio e passaporto), e poi risali sull’autobus dall’altra parte del muro; se tieni questa trafila, è chiaro che è entrata ben poca gente. A un certo punto il solito casino: lancio di lacrimogeni, in mezzo alla gente, alle macchine e agli autobus ! Anche lì c’era stata una manifestazione con la preghiera e il corteo.
30 agosto2011
Rientriamo a Hebron la mattina dopo. Giro del mercato. Mentre ci avviamo sulla salita, un gruppo di bambini ci chiama: soldati in una casa! Corriamo a vedere. Sono entrati con le solite “buone maniere”, dando spintoni alle donne. Non c’è niente e non cercano niente: vogliono solo occupare il tetto di quella casa per un po’, eppure proprio lì di fianco hanno una torretta di guardia, con lo stesso campo di visibilità. E’ proprio solo la dimostrazione di essere al di sopra di tutto.

Due anni fa, dopo avere subito una serie di incursioni simili, gli abitanti della casa avevano ottenuto un impegno pubblico a non venire più nuociuti, che ne è ora di quella promessa? Capiamo che queste incursioni fanno parte del controllo a tappeto che stanno facendo: nei giorni che precedono il 23/9, giorno previsto per il discorso di Abbas all’Onu, un gruppetto avrebbe inscenato una piccola manifestazione: rinominare Shuhada street che è vietata agli arabi, in Apartheid street.
Qualche manifesto, qualche slogan, qualche scritta sui blocchi di cemento che chiudono l’accesso. Ma i soldati la fanno diventare una operazione di guerra: trenta soldati o più, in assetto da combattimento, si danno da fare a spingere indietro la gente, per liberarsi uno spazio; in quello spazio piazzano una doppia riga di rotoli di filo spinato! E per che cosa? Nessuno faceva nient’altro che una piccola manifestazione! Nel pomeriggio tutto sarebbe comunque tornato alla tranquillità. Anche i controlli ai check point continuano a peggiorare.
18 settembre 2011
L’assalto ad una casa in pieno centro a Hebron
Per la sera siamo ad una manifestazione in solidarietà a Gaza, dove gli israeliani stanno di nuovo bombardando; questa manifestazione non è una gran cosa, ma almeno c’è. Ci arriva subito una chiamata, una invasione militare in un quartiere; si parla di almeno otto mezzi blindati e oltre quaranta uomini. Cerchiamo di aggirare lo sbarramento dei soldati usando un’altra via, ma non c’è modo, riusciamo solo ad arrivare un po’ più vicino.
I soldati avevano prima parlato di una operazione di soli venti minuti, alla ricerca di un “sospetto”, ma dopo tre ore erano ancora là, con donne che gridavano e soldati che non sapevano cosa rispondere alle nostre domande. Sappiamo per certo che c’era stata anche un’esplosione violenta, avevano detto che dovevano fare saltare qualcosa, e la casa gliela hanno mezza distrutta, vetri e pezzi di arredamento dappertutto. Poi hanno cominciato a dire: “attenti, state nelle case”, come se dovessero succedere altri scoppi, invece erano loro che cercavano come andare via, creando allarmismo e cercando di spaventare il quartiere.
La cosa che mi ha stupito di più: in un paese in cui tutti sembrano rassegnati, si è improvvisamente avviata una battaglia di strada. I ragazzi (qui chiamati shebab), che erano rimasti nascosti durante le operazioni, compaiono in strada con tutti i sassi del mondo; comincia una sassaiola contro i mezzi corazzati, i soldati che si ritirano sono sempre facilmente attaccabili, vedi che hanno paura mentre cercano di staccarsi dall’area; per farsi strada devono comunque sparare i loro dannati lacrimogeni e noi che eravamo più in alto abbiamo visto benissimo che tiravano orizzontale, e non certo in alto per disperdere i manifestanti; quando non ce la facevano più e aumentava la paura nei soldati, hanno usato anche le bombe al fosforo, che rendono l’aria irrespirabile a grande distanza. Il risultato è stato di oltre quaranta feriti, tra intossicati e colpiti direttamente da lacrimogeni e anche dalle famose pallottole ricoperte di gomma.
Il ricercato era appena rientrato dalla galera e probabilmente simpatizzante di Hamas, ma certamente molto benvoluto dal popolo!
28 agosto 2011
Il sabato pomeriggio nel centro della città vecchia di Hebron c’è quasi sempre una visita più o meno “turistica” di coloni israeliani; dico più o meno, perché la guida, mentre spiega strade, piazze e monumenti, sicuramente accenna al desiderio di conquista. Comunque escono da un cancello che c’è nella piazza a metà del mercato e che corrisponde ad una strada che sbuca in questa piazza centrale della città vecchia, provenendo dalla famosa Shuadah street, ora vietata ai palestinesi. Un gruppo di venti o trenta coloni di tutte le età esce scortato da almeno venti soldati in assetto di guerra, mitra spianato, posizioni da assalto. Mentre di solito escono prima, a occupare alcuni tetti da cui controllare, ieri, grande novità, hanno fatto anche il giro con un grosso cane: non un cane da assalto, ma da fiuto, e in un posto come il mercato cercava in tutti gli angoli di immondizia, sembrava una cosa ridicola, ma anche questo ha interrotto le attività della gente! Sembra un precedente che rischia di essere grave: cosa stanno provando? Gli arabi non hanno cani e non li amano, fin da quando Maometto è stato morsicato; l’eventuale introduzione dell’uso dei cani potrebbe essere pericolosa.
Tornando ai nostri coloni-turisti, la loro uscita è penosa (sembra veramente un gruppo di animali al pascolo in mezzo ai leoni, oppure l’entrata in un banthustan pericolosissimo). Comunque l’effetto è triste. La gente del mercato, sempre numerosissima, viene tenuta ferma con le armi spianate, le botteghe cominciano a chiudere molto in anticipo, perché non è proprio divertente avere questa interruzione, che in tutto è durata un paio di ore.
Sempre nella città vecchia, davanti alla moschea, oggi c’era un militare dell’esercito di occupazione, un ragazzino fascistello, che si divertiva a chiamare i passanti per chiedergli i documenti; qualcuno è stato fermo più di un’ora prima che lo lasciassero andare!
4 settembre 2011
I bambini per andare alla Kurtuba school salgono da una scala in pietra, alla cui base c’è un garitta di controllo, cinquanta metri prima della scuola ebraica. Nel passato ci sono già state scene di violenza; come minimo c’è sempre qualche vociata contro i palestinesi. E i soldati che controllano: la ragione è sempre la sicurezza, cioè cercano armi, anche solo un coltello; vorrei sapere cosa c’entra frugare nella borsa dei bambini, o sfogliare libri e quaderni. Tutte le volte che provi a parlare ai soldati, ti ripetono la storia della sicurezza, ma non si rendono conto di esasperare la gente e se cerchi di spiegarti, c’è sempre qualcosa che gli impedisce il ragionamento. Se pensassero di avere a che fare con esseri umani, userebbero certamente più rispetto, ma il problema è proprio questo: loro trattano i palestinesi come esseri inferiori a cui non si concede il principio dell’umanità, ma solo il maltrattamento come a bestie.

11 settembre 2011
Dintorni di Hebron, incontri nuovi, distruzione delle coltivazioni
Finalmente arriva un gruppo nuovo ed eccomi a portarli in giro per Hebron, cominciando dalla collina con gli ulivi bruciati e scendendo su Shuada Street dal cimitero arabo. Poi i check point, la moschea, e il mercato dove facevano a gara nei commenti: finalmente Abu con un gruppo nuovo! Un caffè, un the, un felafel, tutti ci offrono qualcosa. Ad una certa ora partiamo per Beit Ommar: la manifestazione del sabato. Pochi giorni fa i coloni, in una incursione, hanno demolito una serra, quindi la manifestazione parte da lì. I soldati ci aspettavano da un’altra parte, per cui vengono al confronto solo in quattro. Evidentemente non ci fermano, basta girargli intorno. Così scorazziamo per un po’ lungo la recinzione di Karme Sur, salendo e scendendo da muretti che separano vari pezzi che dovrebbero essere coltivati a frutta, ma dove rimane poco, si vede che non possono coltivare quasi mai, ci sono erabcce, gli alberi sono tutti soffrenti. Dall’altra parte della recinzione arrivano parecchie jeep, ma i soldati devono uscire da un cancello prima di raggiungerci. Chissà poi perché, noi infatti facciamo una manifestazione pacifica, non stiamo certo cercando di sfondare i loro recinti. Ma è così, loro devono venire per forza a fermarci. Trafelati e ansanti, a poco a poco arrivano, in numero ben superiore a noi! Gli diciamo: “Se solo c’era un soldato di guardia da questa parte, i coloni non avrebbero distrutto la serra”. Ma questo a loro non interessa, i palestinesi non hanno nessun diritto. Il proprietario della serra si è rivolto alle autorità, ma per ora nessuna risposta. Dopo che ci spintonano per un po’ e tirano un brutto calcio a un ragazzino dodicenne, ci ritiriamo. Risaliamo al centro del Palestinian Solidarity Project.
I tre israeliani che erano con noi decidono di ripartire subito, temono che i soldati possano venire a cercarli. Anche noi ripartiamo. Abbiamo deciso di andare a Betlemme, all’Università Palestinese, dove abbiamo appuntamento con Sami Basha, professore legato a progetti di riabilitazione per diversamente abili da situazioni di guerra. E’ amico di una nostra amica palermitana, è stato a Roma vent’anni. Racconta tante cose e ci chiede di fare in ottobre degli incontri con gli studenti: è molto importante che incontrino degli internazionali. Loro non possono viaggiare, non possono neanche andare a Gerusalemme.
Sarà molto importante che sappiano che ci preoccupiamo della loro terra. Sami ha sia passaporto italiano che documenti palestinesi. Ogni tanto si diverte ai check point, cominciando in un modo e continuando in un altro. Ma tante cose sono vietate, ogni volta che va in Israele deve chiedere permessi che durano pochissimo. Così per quando è stato a Gaza: quello che ha visto è raccapricciante: conosciamo i millecinquecento morti di “Piombo fuso”, ma non la quantità di menomati, gli arti mancanti, le ustioni irreparabili. Hamas avrà i suoi torti, ma l’operazione Piombo Fuso è una cosa che non si potrà mai perdonare a Israele, con tutta la distruzione e gli esperimenti con armi proibite che hanno fatto.
Dal tetto dell’università c’è un grande panorama.
Anche a Betlemme incontriamo manifestazioni di giovani che bloccano le strade. Questa volta sentiamo anche chiaramente slogan contro Israele e contro l’occupazione.
Al Khalil 8 settembre 2012
Quando arrivo a Hebron è ormai l’orario dell’uscita delle bestie feroci. Avevo già concordato con i ragazzi di qui, che ci saremmo incontrati proprio lì, al tour dei coloni nella città vecchia. Prima c’è il rientro della pattuglia che ha perlustrato la zona per controllare che non ci siano pericoli nascosti. Poi i soldati rientrano dalla loro parte, ad aspettare che arrivi l’autobus con i coloni. Ma già questa perlustrazione ha del grottesco: una pattuglia in assetto da guerra a controllare lo stato di sicurezza di un tranquillo mercato!
Quando, scesi dal loro autobus, entrano nel mercato dal cancello usato solo dai soldati, sembra di essere al circo, quando gli animali feroci seguono in fila indiana un percorso preciso: scortati sui lati da tutti questi soldatini con il mitra in mano. Dico ad un soldato ragazzino: ma non siamo gente normale, sia di qua che di là, che ci fanno i vostri fucili? Non potrebbe essere gente tranquilla che viene a fare compere, come fanno i turisti? No, no, dobbiamo difendere gli ebrei. Ma da cosa? Semmai bisogna difendere i commercianti da qualche ebreo provocatore!
Al khalil 30 agosto 2012
Bellissimo tornare alla mia camminata nelle colline desertiche. Un’ora di mezzi pubblici e 50 minuti di marcia, ed eccomi agli accampamenti di Sussya. Il primo che mi vede e riconosce è uno dei figli di Yussef, sta correndo dietro a suo fratello con le pecore per portargli una bottiglia di acqua. Mi spiega che Jamal non c’è, è in Israele a raccogliere cipolle. Yussef (suo padre) non c’è nemmeno. Allora decido di andare prima dai cugini, Abed e Nasser. Anche loro sono in Israele, trovo solo i nonni, con cui prendo il primo thè. Gli chiedo: “Come sta il padre di Jamal” – “Ora vado a trovarli”. Cambio accampamento ed ecco le bambine che mi corrono incontro, mi prendono lo zaino, lo mettono nella tenda. “Ma la mamma non c’è?” “ Nemmeno lei, è a Tel Aviv, ma questa sera viene”. Allora vado dai nonni. “Abu! Che bello, sei tornato! Facciamo il thè, mangia un po’ di pane”!
Finora tutte le spiegazioni erano state in arabo, e io mi sentivo lanciato ed entusiasta, ma dopo un po’ la nonna mi ha buttato giù, con un’aria di superiorità: “Viene in Palestina, torna in Palestina, dice che gli piace la Palestina, e io ancora non capisco cosa dice!” Ho passato un bel po’ di tempo con i bambini. Se togli i quattro più grandi, ne avevo attorno sempre dodici. Un po’ di foto, un po’ di giochi. Ricordi di quando giocavo con i miei….. Finalmente arriva Yusef, con attrezzi da lavoro edile. Stanno rinnovando la scuola di Sussya, non so bene dov’è, con anche un impianto di biogas! Intanto mangia, mi dice, sono rientrate le pecore, c’è pane e latte appena munto. Se vuoi dormi qui. Va bene. Poi arrivano le donne, la moglie di Jamal e le due mogli di Yusef: “Com’è bella Tel Aviv! Com’è bello il mare” (Jamil al bahr, Jamila Tel Aviv)! Non erano mai andate. “Vieni a dormire da noi, dice la moglie di Jamal, ti ricordi che Amer (il maschietto grande, che ora andrà a scuola), vuole dormire vicino a te”. Va bene, così, contro ogni tradizione, rimaniamo seduti a chiacchierare con i bambini intorno io e lei, con un pò di patate fritte e pane e thè.
Stamattina alle sei e mezzo viene chiamato Amer. Io mi alzo subito, c’è il convulso avvio di giornata: pecore che escono al pascolo, bambine che riempiono secchi di acqua, ordini di qua e di là. Sto uscendo con le bambine e le pecore, quando Yusef mi chiama: guarda là, i soldati, una ruspa. Raccolgo al volo la macchina fotografica e mi avvio più in fretta che posso. Si tratta di un altro accampamento, una collina un po’ più avanti. Ora hanno allontanato la gente, sono sul pendio un po’ più giù, e la ruspa sta manovrando prima da un lato, poi dall’altro, per ridurre a un mucchio di ferri e tele due belle tende con tanto di cartello: “Con il contributo delle Nazioni Unite”. Due delle quattro tende di cui è composto l’accampamento. Senza ordini di demolizione, senza esibire documenti di alcun genere. Insulti ai soldati che se ne vanno, grida di vittoria e libertà. Si sono presentati con due jeep militari, quattro fuoristrada bianchi, la ruspa e un autobus di soldati. Sembra che se ne vadano, ma quelli di Operazione Colomba, che dovevano raccogliermi per quel meeting, fanno sapere che ci sono altre due demolizioni nella zona. Cominciano i giri di thè, sono ancora con me sia Yusef che il padre di Nasser. Pian piano tutti tornano alle loro occupazioni: loro demoliscono ma qui si ricostruirà.

Hebron 28- 08-2012 Claudio Abu Sara
Proviamo a fare la strada che mi vietano?
Domenica 9 settembre 2012 siamo andati a trovare Hashem Hazzeh, scavalcando muri e vecchie recinzioni. Infatti abita proprio sotto il posto dove si sono insediati i primi coloni israeliani di Hebron, arrivati qui negli anni ’80, inizialmente con due caravan, che poi sono diventati una palazzina dalla forma strana (ma siccome è in mano a loro, non è costruzione abusiva: abusive sono quelle dei palestinesi, magari anche vecchie di cento anni!) Vista questa vicinanza proprio non desiderata, Hashem e la sua famiglia non possono usare la strada principale, a cui accederebbero a casa loro usando una stradella pianeggiante. Devono fare quel percorso a ostacoli attraverso cui accompagno i miei amici. Hashem è come sempre molto ospitale. Sua moglie prima di portarci il the ci va vedere i suoi dipinti. Intorno alla casa ci mostrano gli alberi che sono stati tagliati o avvelenati. E’ proprio una vita impossibile abitare sotto questi coloni, tra i quali c’è anche Baruch Marzel, il pericoloso responsabile della comunità ebraica di Hebron.
A un certo punto Hashem ci dice: “Ora devo uscire anche io. Proviamo a fare la strada che mi vietano, già che siamo tutti insieme?” Così facciamo, con videocamera che riprende. Si vedono i coloni dalle loro finestre con brutti sguardi, ma nessun movimento. Appena il soldato di guardia in fondo alla strada ci vede sbucare da dove non dovremmo, afferra il telefono e lo vediamo preoccupato in discussioni con i suoi superiori. Ma poi fa un cenno: venite pure avanti. Da allora Hashem ha continuato a fare la strada che da anni gli era preclusa! Quanto durerà? Per ora è tutto contento, dobbiamo andarlo a trovare di nuovo.
15 settembre 2012
Hashem purtroppo non è più tra di noi. Se lo è portato via un leggero infarto, che si è rivelato mortale per il tempo impiegato per arrivare all’ambulanza, obbligata a restare al di là del check point, mentre i barellieri si avventuravano di corsa su per i viottoli, per raggiungerlo, e poi giù con la barella verso l’ambulanza, lontanissima, per arrivare in ospedale ormai morto.
Ancora una settimana tra al Khalil, le colline a sud di Hebron, gli scioperi, la collaborazione tra polizia Palestinese e esercito israeliano
Questa famiglia è in cima alla collina: c’è un tramonto spettacolare, una notte stellatissima come sempre, la tranquillità della loro cena con il solito riso. L’accampamento è come gli altri, solo qui ci sono tre greggi: Jamal, che ci ospita, un fratello e anche papà. Jamal è il più insoddisfatto: “è così bello qui, ma non abbiamo nessuna libertà”. Nelle divisioni dei terreni, lui ha la zona davanti all’accampamento, ma se si allontana più di dieci metri dal bordo del wadi (il fondo valle, che in primavera viene coltivato a patate, pomodori, cetrioli e zucchine) escono i soldati dalla torretta sovrastante per ricordargli i suoi limiti! E anche con noi lì lo fanno sia la mattina che la sera. Cosa può fare mangiare alle sue pecore se gli chiudono tutte le vie per il pascolo?
Il loro pozzo è ora asciutto; portano acqua con una piccola botte dietro il trattore, ma al mattino le pecore si devono fare una bella sgroppata per andare ad un pozzo molto più lontano. Dopo la camminata, noi a riposare e le pecore a ruminare.
Intanto la moglie di Jamal ha provveduto a raccogliere ogni escremento dal recinto per ammucchiarlo ad essiccare e a mettere un po’ di granaglie nelle mangiatoie. Munge una pecora ogni tanto, per i loro consumi, fa cagliare un po’ di latte subito per mangiarlo bagnandoci il pane, e la mattina dopo per una tazza di latte buonissimo, ma che ti fa andare subito a scaricare! Al mattino il bambino di cinque anni, che non va a scuola, con l’aiuto della mamma, ci porta la colazione: the, patate fritte, pane caldo e un intingolo che pare olio: scopriremo poi che è anche questo un prodotto delle pecore: dopo che fanno il loro formaggio, invece di una seconda lavorazione per ricavare la ricotta come facciamo noi, fanno questo liquido che viene aromatizzato con erbe; da quattro litri di latte si fa un kg di formaggio e un litro di questo liquido, unto come l’olio e ottimo per bagnarci il pane. E il pane, che troviamo caldo? Era caldo anche alle tre di notte durante il ramadan! Il forno è un anello di terra cotta, con una specie di copertura di metallo, i pani si cuociono sulle pareti interne, e tutt’intorno viene fatto un cumulo di sterco secco, ecco perché viene raccolto continuamente, a cui si dà fuoco. Quando finisce di bruciare tirano fuori tre pani, e ricominciano a cuocere……
Prima di andare via andiamo a salutare gli anziani. La nonna sta facendo un pane un po’ diverso, che gira su una piastra metallica sopra il fuoco; questo sistema è molto usato anche nella città vecchia, ma nella tenda è più suggestivo! C’era anche da rappacificare Jamal con il suo vicino (hanno un po’ di attriti), così vado anche nell’accampamento di fianco a prendere un caffè nella tenda di Abed. Fuori c’è un gruppo di donne che tesse un tappeto.
18 settembre 2011
Uscita con le pecore, per l’abbeverata; con il trattore a caricare acqua ad uno dei pozzi, poi la cena: il solito riso, stavolta con salsina di pomodoro, e a nanna presto, con lo spiffero meraviglioso e terribile.
Sempre di notte, mi alzo ancora a guardare le stelle…..
La mattina dopo usciamo all’alba, non si vede nessun soldato alla torretta, e allora avanti, un pò più su del solito. Le pecore mangiano più volentieri, tutto è umido. Quando la soldatessa ci vede siamo fuori della zona autorizzata e lei, da sola mentre noi siamo quattro, non osa sgridarci. Io provo ad andare a parlarle e lei mi grida di andare via; intanto con la radio ha chiamato una pattuglia. Noi però dopo un po’ ridiscendiamo, per portare le pecore a bere e per fare colazione, così quando arriva la camionetta con i soldati, vediamo che la soldatessa viene sgridata: cosa hai chiamato a fare, non c’è niente!
7 ottobre 2011
Giovedì mattina ero a Susya dai miei pastori, quando è arrivata una chiamata urgente: è pieno di soldati e c’è un bulldozer! Dall’accampamento vicino c’è Nasser con la macchina; corriamo sulla strada (sono con un ragazzo australiano, fotografo freelance), ci raccoglie e arriviamo correndo: pieno di mezzi militari, pieno di soldati, e questa grande ruspa che sta abbattendo e distruggendo dei pali appena installati per portare la luce ad un accampamento beduino. Siamo nelle solite condizioni: non si capisce perché, ed è una operazione terrificante. Ho visto le facce di alcune persone che esprimevano il terrore: adesso tocca a me, adesso toccherà alla mia casa; e pare che il ruspista lo sappia e si diverte a fare tremare la gente. Si è fermato a spostare un masso, proprio sopra una casa in costruzione, con la gente sotto che tremava! Foto16

E’ la prima volta che arrivo a demolizione in corso e non a cose fatte. E’ una esperienza terribile. Esperienza di impotenza, contrapposta alla quantità di soldati dislocati intorno per tenere lontana la gente, e senza alcuna capacità di dare ordini; a me hanno detto prima di stare da una parte, poi di stare da un’altra! Finché gli ho detto shit, faccio quello che mi pare, e sono andato avanti. Il soldato si è così stufato di seguirmi, e tanto ormai dovevamo solo inseguire la ruspa per vedere se andava altrove: sì, sale ancora, e via di corsa, verso l’accampamento beduino. Lì è stata una operazione brevissima: pare che c’era un casotto preparato per ricevere la corrente quando fosse arrivata, quindi un colpo di ruspa e via.
Dopo avevamo sentinelle in giro, mentre noi bevevamo un the. Prima c’è un allarme: stanno andando a Khalil al Malyya; poi, falso allarme, sono sì andati lì, ma non hanno scaricato la ruspa dal camion. E infatti poco dopo, dalla nostra posizione vediamo che torna sulla strada principale e se ne va, per oggi “bikaffi”: è finita, basta così…. Sembra che ci sia un piano di disperdere i beduini della zona; quindi per lo meno impedire che si stabilizzino di più! Ma questo è contro tutte le leggi internazionali, che, come sempre, Israele ignora.
5 novembre 2011
Nel primo pomeriggio prendo con me la ragazza americana e parto per Sussya. Prevedo il solito giro. Come al solito un service per Yatta e poi quello più scassato che va ad Al-Karmil. Sul pulmino io sono seduto nella fila davanti con un simpatico signore a cui racconto un po’ di cose, Eva è seduta dietro, di fianco ad una bella donnona carica di borse. Dopo un gran sorriso comincia a farle vedere gli acquisti: visibilmente sono acquisti finalizzati ad un matrimonio. Ed è tutto un sorridersi e lanciare esclamazioni di approvazione. Quando è ora di scendere, ci invitano: “venite a prendere un the o almeno un po’ d’acqua”. Dopotutto, penso, è ancora presto e rifocillarsi prima della camminata va bene. La loro casa è proprio l’ultima della borgata, e ci arriviamo allontanandoci abbastanza dalla nostra direzione. Ci fanno sedere, arriva una delle figlie con un recipiente pieno di riso cotto nel latte. Poi pezzi di formaggio, con il solito pane (tabun), buonissimo e scuro perché fatto di orzo. Evidentemente era il pasto preparato per la famiglia, ma ce n’è sempre in abbondanza.
E’ evidente, visto quello che mangiamo, che è famiglia di pastori, ma loro ora hanno solo tre pecore, papà lavora come muratore oltre il muro, per questo guadagna di più e possono anche mostrare con soddisfazione tutti gli acquisti: due figlie si sposeranno nelle prossime settimane! Mentre mangiamo arriva il the, e man mano vengono a salutarci figli e nipoti. Non facciamo in tempo a finire il the che arriva anche il caffè, e pure una bottiglia di acqua e una di succo: “se non bevete ora, portatevele per la strada”!
Mentre camminiamo, ripensando a questa accoglienza, credo di ricordare che nelle scritture o nel Corano ci devono essere tante riflessioni sul fatto che accogliere i viandanti sia una condizione per la riuscita di un matrimonio, o per lo meno sia un buon auspicio.
Finalmente, lasciando le bottiglie in più, partiamo, Sussya è di là, ci indicano, ma davanti a noi c’è solo una collina desertica. Dopo averla superata, ritorniamo sul percorso solito, attraversando una zona abitata con case sparse da cui vengono fuori bambini che diventano una coda che ci segue. Simpaticissimi. Per sganciarli, taglio per le colline un po’ prima del solito.
Mentre partivamo da Hebron, dei ragazzi ci avevano avvisato: guardate che domani c’è sciopero generale, non ci sarà nessun mezzo di trasporto. Domani ci penseremo. Arriviamo a Sussya. Stavolta ci sono tutti, anche se Jamal è fuori con le pecore. Prima il the con i nonni e Yussef, ci vogliono anche fare mangiare, ma rifiutiamo. Poi arriva Jamal: “ora dovete venire da me”, e subito altro the. “Quello lo avete bevuto nell’altra tenda, ora dovete bere quello mio”. Finalmente riesco a parlare un po’ di più con Jamal. Il suo inglese e il mio arabo sono migliorati. Ci eravamo chiesti se davvero sono beduini, e lo sono, provenienti dal Neghev, da cui sono stati cacciati con la guerra del ’67. Per un periodo hanno avuto case in una zona di Yatta, da cui di nuovo gli israeliani li hanno cacciati, a favore di un insediamento. Ora sono lì dal 1980 circa, e di nuovo rischiano lo sradicamento per la minaccia della eliminazione di otto villaggi dell’area. Quanto al suo lavoro oltre il confine, “come lo hai trovato?”. Amici beduini che ha incontrato a Yatta, gli hanno detto di raggiungerlo, che il lavoro c’era. Ma illegalmente, sfuggendo alla polizia di frontiera e ai controlli vari. La paga era di cento shekel (20 euro) al giorno, un terzo di quella nell’edilizia, racconta, ma sempre dei bei soldi per loro. Altri mi hanno raccontato di lavoratori illegali oltre frontiera, che il giorno di paga vengono denunciati alla polizia, e così rispediti senza paga! Ma a Jamal è andata bene. La mia compagna si prende i bambini: studia filosofia, ma con i bambini ci sta molto bene. A cena si ritorna alle tradizioni: Amer mangia con noi, ma la moglie no. Notte di stelle e vento, ma anche di aerei su Gaza.
L’indomani io e Jamal usciamo con le pecore, Eva aiuta a preparare i bambini per la scuola. Mentre facciamo colazione, anche melanzane fritte oltre al solito yogurt duro, pomodori e il liquido derivato dallo yogurt, ecco che ritornano i ragazzi: è proprio sciopero generale. “Cosa volete fare? – chiede Jamal – state un altro giorno!” Gli chiediamo comunque di accompagnarci a Yatta, se poi non c’è modo di viaggiare ritorneremo. Con un po’ di fatica accende il suo scassone, ed ecco farsi avanti tutti i vicini e parenti: chi lo incarica di portargli le sigarette, chi di comprare non so cosa. Per un po’ è un via vai di commissioni per tutto l’accampamento. A Yatta incontra un conoscente, seduto al volante della sua auto ma indeciso se muoversi o no: li porti a Al Khalil? “Quanto mi date”?, ci chiede. Venti shekel, offro. Affare fatto.
Quando partiamo vediamo già casino in Yatta, mezzi di traverso a bloccare la strada, fuochi di copertoni, ragazzi che gridano. Lasciamo Yatta, ma al primo paese ci sono camion di traverso e un comizio in corso. Non c’è modo di passare. Allora proviamo a tornare indietro e prendere una strada laterale, l’idea è di raggiungere la route 60, che percorre tutta la West Bank e che in certi tratti non è vietata ai palestinesi. Ma al primo tentativo di stradella laterale, ci troviamo davanti a un tratto per cui ci vorrebbe un trattore per accedere alla strada, è il solito sbarramento israeliano per impedire ai palestinesi l’uso delle strade migliori o anche solo il loro attraversamento. Dovendo tornare indietro dicono: “Non preoccupatevi, se non riusciamo ad andare a Hebron, siete nostri ospiti”! Invece, continuando a provare ad andare indietro, riusciamo in un punto ad accedere alla route 60, e lì è un balzo superare Hebron e le tre entrate per Qiriat Arba (la zona degli insediamenti di coloni di Hebron). Finalmente, ridiscendendo da nord, entriamo a Hebron, dove ci accolgono tutti i tipi di blocchi stradali. Cassonetti, mezzi, bidoni, copertoni in fiamme dappertutto. Tutti ci fermano: appoggiate le nostre rivendicazioni!
Una macchina accosta, un uomo distinto ci chiede cosa facciamo, se possiamo incontrarci. E’ un funzionario del ministero dell’interno, “ma non sostengo Fayyad, non vi preoccupate”. Ci scambiamo i telefoni e prometto un incontro. Tutto intorno alla piazza c’è una folla colossale, ma la manifestazione vera e propria è convocata per il pomeriggio. Troviamo tutti i negozi chiusi, mai visto uno sciopero così. Trovo solo sulla porta semichiusa il commerciante a cui avevo lasciato i bagagli al mio arrivo: guarda, mi dice, c’è un italiano. E’ un optometrista, con il negozio al piano superiore. E’ stato dieci anni a Bergamo. Un periodo bellissimo, racconta, lavoro e studio, amicizie, tutti che ti aiutano, sembrava come in Palestina.
Dopo un caffè, un esame della vista, un controllo di occhiali, decidiamo di salire a casa, gli altri ci aspettano per decidere come muoverci nello sciopero, e noi dobbiamo lavarci e mangiare qualcosa. Ora si passa dal check point, anche se si vede che è già successo qualcosa.
Saliamo a casa, gli altri stanno uscendo, li raggiungeremo tra poco. Nella notte c’è stato un uomo colpito da un proiettile in una gamba. Pare che qualcuno avesse una molotov, e i soldati hanno sparato proiettili veri.
Quando ridiscendiamo, il check point è chiuso, di là gli shebab tirano sassi, di qua i soldati escono ogni tanto a sparare lacrimogeni. Noi dobbiamo risalire un po’ e poi con dei ragazzi scendere calandoci da muretti e scavalcando recinzioni.

Arriviamo giù e ci dicono: ora fate come volete, a destra problemi con gli israeliani, a sinistra problemi con l’Autorità Palestinese. I soldati israeliani sono saliti sui tetti e sparano lacrimogeni dall’alto utilizzandoli come proiettili. L’anno scorso avevo visto i commercianti chiedere ai ragazzi di smettere di tirare sassi e lasciarli lavorare. Ma oggi è sciopero, il campo di battaglia è libero da interferenze. Intanto anche la manifestazione al municipio è degenerata: i ragazzi hanno preso a sassate gli uffici del comune, e anche qui la polizia risponde a manganellate.
Molti diranno che questo scontro interno è quello che vogliono gli israeliani. Comunque questa giornata di mobilitazione in tutta la West Bank fa cedere presto il governo, per il poco che può decidere. Il prezzo della benzina scende un po’ e viene promesso il pagamento degli stipendi di agosto (c’era bisogno di questo casino per così poco?). Si sente la gente dire “basta con il protocollo di Parigi, basta con gli accordi di Oslo”. Ottenere questo sarebbe invece un bel passo avanti.
Tornando al mercato, ci dicono che anche il check point alla moschea è chiuso. Siamo intrappolati in mezzo agli scontri. Era successa una cosa divertente: una ragazza francese che avevo già visto, passando dalla piazza, raccoglie da terra un candelotto lacrimogeno inesploso e se lo mette nello zaino. Passando al check point pare che volessero arrestarla per detenzione di una bomba, e così avevano chiuso tutti i passaggi dai check point. Poi si accorgono che è roba loro e tutto il problema svanisce come una bolla di sapone.
Riusciamo quindi ad uscire dal lato della moschea, anche se nei vicoli ristagna molto fumo di lacrimogeni. Percorrendo Shuada Street è evidente che non possiamo avvicinarci al check point 56: troppi lacrimogeni, per cui decido di salire attraverso l’uliveto conteso e girare intorno alla collina di Tel Rumeida.
15 settembre 2012
C’è un ragazzo francese che lavora con una NGO su un progetto “Sumud”, che si impegna a portarci da alcune delle famiglie che dovevamo cercare. Una abita sotto le recinzioni di Qiriat Arba, di fianco alla stradella pedonale che dalla colonia porta alla Moschea di Abramo. Quindi spesso i bambini vengono attaccati. Ci impegniamo a venire ad accompagnarli a scuola.
La casa dei bambini attaccati, dove ci rechiamo in visita, è proprio di fronte all’edificio con la vendita contestata, ma sull’altro lato della valle, ai piedi di Qiriat Arba. Nei giorni di festa c’è un gran via vai di sionisti lungo la stradella. Scopriamo che la strada principale ha per l’occasione la sua dose di apartheid: una serie di transenne chiude uno stretto corridoio laterale, dove devono transitare gli arabi, “inferiori”. Beninteso i tanti Israeliani in transito nella strada, buttano immondizie e scarti di costruzioni nello stretto corridoio transennato che devono percorrere i Palestinesi.
La strada è solo per il via vai di pellegrini. Ma questa mattina la festa è finita e oltre alla monnezza lasciata dai pellegrini anche le transenne sono ancora lì. Due ragazzi giustamente incazzati cominciano a buttarle giù. Un soldato da una postazione su un tetto grida: fermo. Ma quelli si allontanano: è arrivata una jeep con soldati come sempre armati di tutto punto, per cercare i due fuggiaschi: anche qui, sarà stata anche la nostra presenza, la loro caccia è stata infruttuosa. Alla scuola ci chiedono di fermarci un poco, chissà che i soldati non vengano li a cercare i due ragazzi, nel qual caso dovremmo essere noi a bloccarli fuori della scuola.
L’altra famiglia da cui andiamo è in una situazione ancora peggiore: stanno in mezzo all’area percorsa avanti e indietro dagli israeliani, vicino a una delle scuole palestinesi di quell’area e vicino al check point dove frugano le cartelle. Sono tra i pochi rimasti vicino a Shuada Street e sono ridotti in un piano della casa: i piani superiori erano stati occupati da sionisti, ma sono stati sgomberati anche se hanno lasciato le loro bandiere. Anche qui ora situazione di stallo, i piani superiori sono chiusi, ma la solita donna scatenata viene a sedersi su uno scalino della casa per leggere la sua Torah, annunciando che presto verrà a stare lì. La polizia interviene, ci manda via e manda via anche la donna.
7 ottobre 2012
Ancora ulivi tagliati, coloni cattivi. Finalmente anche un gruppo di Israeliani che collaborano con noi, per fortuna esistono anche loro
Torniamo a Hebron, con due chiamate: da At-twani per una manifestazione/azione per il sabato, e da Sami, il contatto palestinese di Hebron, per problemi con case di cui i coloni devono prendere possesso. Ed eccoci tornati.
Sabato, di nuovo il service per Yatta. Di nuovo la piazzetta di Yatta e le chiacchere, le trattative per il prezzo. Io avevo capito che c’era un service per At-Twani, ma non era vero. E’ sempre quello per al-Karm, che però, per pochi shekel in più, ci porta ad At-Twani: la strada è discreta, non come per Sussya! Ci scarica alla casa di Operazione Colomba. Sette ragazzi italiani, un caffè vero, anche qui un ragazzo si ricorda di me da una demolizione dell’anno scorso, mentre con altri ci siamo sentiti al telefono. Pare che tutti i sabati fanno qualche iniziativa, con un certo Musab, che è quello che ci ha chiamati. Sabato scorso hanno arato un campo sotto la colonia e i coloni li hanno attaccati in massa. Per fortuna c’erano soldati che si sono messi in mezzo. Quindi oggi hanno chiamato tutti quelli che si poteva, per essere più numerosi dei coloni.
Si va in un oliveto, dove ogni giorno trovano nuovi alberi a cui hanno rotto parecchi rami. Anche oggi ne vediamo due rotti questa notte. Penso a cosa farebbe chiunque di noi a trovarsi gli alberi danneggiati così. Siamo davvero in tanti, con parecchie jeep dell’esercito a controllare. Raccogliamo i rami rotti in giro e dal paese sale un trattore a caricarli. Anche quando i soldati si allontanano, lasciando una sola jeep, i coloni non si avvicinano.
Vediamo solo un gruppetto che rimane in distanza. Ci sono gli israeliani di Ta’ayoush, che non avevo mai incontrato. Sono decisissimi. Chiamano la polizia e non vengono via finché non riescono a farli venire, fotografare il danno nuovo e prendere nota (servirà a poco, dicono, ma almeno facciamo sudare anche loro). Noi siamo ridiscesi con i palestinesi, c’erano anche varie donne. In un paesino che conterà un centinaio di persone, una trentina sono venuti nell’uliveto! Trovo Abed, che è arrivato dopo la manifestazione, nostro contatto per Susya, con cui non ho mai avuto un gran feeling.
Per tornare ci accodiamo a Ta’ayoush: loro viaggiano su un grosso pulmino con autista e oggi hanno posto anche per noi. Ma non hanno finito i loro impegni, e così faccio un’esperienza nuova: muovermi con israeliani in quelle contrade. Completamente diverso, le strade che usano loro finora le ho solo incrociate percorrendo gli sterrati palestinesi.
Hanno appuntamento ad un posto di blocco al confine meridionale sulla linea verde. Un palestinese di un villaggio vicinissimo al confine è stato fermato senza documenti, ora suo fratello ce li porta e vengono consegnati alla polizia con tutti noi, quattordici persone, presenti come scorta. Sembra che verrà rilasciato. Ma c’è un altro problema, di uno che è stato arrestato, sulla sua terra, mentre pascolava le sue pecore. E’ uno di quelli che vivono tra il check point e la linea verde di confine vera e propria, in una zona la cui giurisdizione è dubbia.
Mentre queste trattative con la polizia vanno avanti, uno ci racconta di una delle dicerie peggiori tra gli ebrei a Gerusalemme: i palestinesi di Gerusalemme non pagano le tasse. Niente di più falso, perché pagare le tasse è l’unico modo per mantenere la residenza. Gli israeliani fanno di tutto per espellerli. A chi è stato a studiare fuori, quando torna dicono, “ora non hai più legami, basta residenza”! Avere la residenza non è molto, ma ti lascia vivere lì. Solo in ordine con le tasse puoi presentare qualsiasi tipo di domanda, quindi i palestinesi sono quelli che le pagano di più!
Finalmente anche il gruppo di Ta’ayoush ci riporta a nord di Hebron, da dove prendiamo un service che rientra in città. Oggi festa ebraica, non c’è giro turistico dei coloni, invece noi siamo pronti per tornare ai check point e ai bambini che vanno a scuola.
Hebron 16 settembre 2012 Abu Sara
Questo gruppo Ta’ayush è stato fondato nel 2.000, con un gruppo misto palestinesi/israeliani, finalizzato a continue azioni comuni non violente per “rompere i muri e il filo spinato” che li dividono. In pratica, c’è questo gruppo di israeliani molto attivi soprattutto nelle colline a sud di Hebron.
Oltre a loro, ma solo come centro di documentazione, c’è B’tselem, ong israeliana ancora più vecchia, nata per documentare la violazione dei diritti umani nell’occupazione, in nome del fatto che siamo stati tutti creati da Dio. Anche se i presupposti sembrano un po’ semplicistici, il lavoro di controinformazione è notevole e dà molto fastidio ai sionisti.
Andando ai militari, ci sono quelli di Breaking the silence, nata da militari che avendo finito il loro servizio di leva, si mettono a raccontare le nefandezze di cui sono stati parte. Mi ero fatto dei biglietti con indicato il loro sito, e li davo ogni tanto ai soldati che mi sembravano più aperti.
Sempre con i militari, abbiamo i ragazzi e le ragazze che ora rifiutano il servizio militare (i refusnik) e vengono arrestati ripetutamente; al primo rifiuto vengono arrestati per due o quattro settimane, poi si ripete il processo e la prigione, non so quante volte, fino a un provvedimento sulla salute mentale…. Tutto questo perché non viene riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza, e ormai chi si vuole informare sa bene cosa vanno a fare i militari di leva nei territori occupati.
Finalmente qualcosa sulla scuola Kurtuba, che è in mezzo ai check Point, sopra Shuada street. Qui i Palestinesi non possono circolare, non possono abitare, ma fino a questa scuola si, possono arrivarci. La scuola è di fronte a una scuola ebraica, parte del loro insediamento dentro la città di Hebron
Non toccate questi bambini
Così affermano le maestre della scuola Kurtuba. E’ la scuola che vive in prima persona le difficoltà di trovarsi immersi nella zona occupata dai coloni a Hebron (zona H2), con solo uno stretto passaggio per accedervi, con i soldati che la controllano di sopra e di sotto, con il passaggio obbligato dal check point 56. Domenica 24 settembre le maestre si sono trovate letteralmente assediate all’interno della scuola, con un commando delle forze di occupazione che ha circondato la scuola, usando anche cani, pretendendo di trovare due ragazzi che, dicevano, avevano lanciato pietre sui coloni. “Questi bambini sono sotto la mia tutela, non si toccano”, dice la maestra ai due soldati che sono entrati nella scuola. “Siete tutti, anche voi maestre, sotto la mia tutela”, dice l’ufficiale.
La maestra che ci racconta è giovane e non alta, e io mi immagino la figura del soldato armato fino ai denti, enorme nel suo giubbotto antiproiettile, con il casco che lo fa sembrare ancora più alto e il solito fucile a tracolla, che incombe sulla maestra. Aveva indicato un’altezza per i bambini ricercati (circa un metro e mezzo), oltre ad avere provato a individuare “tu e tu, venite con me”. La maestra non si perde d’animo: “Se siamo sotto la tua tutela, come fai a non sapere che qui i maschi ci sono solo fino alla quinta? Il più alto sarà si e no un metro e trenta!” “Perché mi fai queste domande?” (che genio è un soldato quando non sa più cosa dire). A questo punto, visto che le maestre non cedono, l’ufficiale chiama altri. Dopo un po’ arriva un altro soldato, che viene a riferire qualcosa: fatto sta che l’ufficiale raccoglie le sue truppe e se ne va, non senza avere minacciato: “la prossima volta che succede, facciamo chiudere la scuola”.
La maestra con cui parliamo è nuova, non c’era l’anno scorso, quando, con la preside in testa, hanno avuto tre giorni di scontro con i soldati: allora il nuovo comandante di Al Khalil aveva deciso di togliere alle maestre il diritto di passare dal cancello esterno, senza metal detector. Era scoppiata una rivolta. La preside dell’anno scorso non è più qui, la incontro la mattina dall’altra parte di Shuada Street, diretta ad un’altra scuola. La preside nuova, ci dicono, non è molto decisa. Ora vedo la maestra arrivare al check point, fare un segnale al soldato, che va a prendere la chiave e le apre il cancelletto. “Non credere che sia stato facile, appena arrivata non volevano aprirmi il cancello, ma ora mi rispettano come le maestre anziane”. Ci racconta che è contenta di essere alla Kurtuba: “E’ il quartiere dove sono cresciuta, lì – e indica un punto su Shuada Street- mio padre aveva un ‘garage’ (parola araba) -cioè riparava macchine- e lì i miei zii avevano un distributore di benzina. Ora quella è la parte occupata dai coloni, mentre lei abita sulla collina di fronte, sopra la città vecchia. Almeno si tratta di una famiglia che non è andata all’estero dopo la chiusura di Shuada Street.
Intanto la città è assediata per lo Yom Kippur. Di nuovo soldati dappertutto che pattugliano le strade, che entrano nelle botteghe del mercato a controllare se ci sono armi. Appena incrociamo una pattuglia, ci accodiamo: entrano nei negozi, frugano un po’. “Ma non siamo cattivi, vedi, non rovesciamo le merci, ci accontentiamo di dare un’occhiata”. Allora sbrigatevi, così andiamo a casa tutti. Sono anche scherzosi: “Facci una foto”, ma sono sempre truppe di occupazione, la cui sola presenza dissuade la gente dal frequentare il mercato e fare spese. Un commerciante gli dice: “Se nascondo armi?, si, guarda lì”, e indica sulla rete di protezione che hanno sopra le botteghe: un coltello, buttato dai coloni che abitano sopra. Lo Yom Kippur dovrebbe essere il giorno del pentimento e del chiedere perdono per i peccati: chissà se l’oppressione degli arabi è peccato.

1 ottobre 2012
Ecco una esperienza bellissima: il teatro di Jenin
Nel pomeriggio invece non c’è il tour dei coloni, c’è un giro di controllo di soldati. Non si vedono coloni, tutti presi dalle loro festività. Invece sono a Hebron i ragazzi del teatro della libertà di Jenin, che non mi era mai capitato di vedere all’opera. Lo spettacolo è semplicissimo e geniale: si tratta di fare parlare il pubblico, di fargli tirare fuori storie.
Bisogna prima riuscire a coinvolgere il pubblico. Si ottiene a questo punto un racconto fatto da uno del pubblico, sulla sua esperienza. Così, dopo breve consultazione, i quattro attori, tre ragazze e un uomo, iniziano a trasformare il racconto in un mimo, con una coordinazione impressionante, compreso l’accompagnamento musicale! Non racconto la partecipazione del pubblico e quanto si sentono coinvolti. Fino a dove il mio arabo mi permette di capire: c’è stata una donna che racconta dei coloni che le hanno invaso la casa. C’è un ragazzo che racconta l’ossessione dell’andare a scuola attraverso i check point. Un altro racconta di essere stato un organizzatore di manifestazioni, ma poi, finito in ospedale con intossicazione da lacrimogeni, era stato trattato con cortisone e aveva rischiato di rimanerci.
Sono storie semplici, che si ripresentano in tutte le piazze, e gli attori sono ben coordinati nel rappresentarle. Poi si passa a storie più complicate, con intervento della regia a sintetizzare il racconto, come suggerimento per gli attori. Ma qui il mio arabo non basta più a capire. Bel pubblico, che con questa partecipazione dei compaesani era sempre attentissimo. Domenica saranno ad At-Twani. Mi piacerebbe seguirli per rivedere lo spettacolo, ma hanno cominciato a chiamarci a Al Boweri, dove ci sono problemi con i coloni che scendono verso le fattorie. Andremo là a vedere.
Hebron – Al Khalil 1 ottobre 2012
Sempre nei dintorni di Hebron, l’uso dell’uva da tavola in eccesso, per fare mosto cotto, uno dei vanti di Hebron, se i coloni non gli rovinano tutto!
Domenica sera facciamo la prima corsa ad Al Boweiri: “tutte le sere ci attaccano i coloni”. Gli attacchi provengono dall’avamposto illegale vicino alla colonia Erfina. Verso le dieci una macchina viene a prendere me e Nick, il mio attuale compagno inglese, giunto da Nottingham in bicicletta, e ci porta alla sbarra che chiude l’accesso alla zona agricola di Al Boweiri. Ci avviamo a piedi e, poco dopo, un “Salam Aleikum” ci interrompe: ci sono tre persone di vedetta su una sporgenza del terreno. Ci dicono che stasera è tutto tranquillo. Ad ogni modo percorriamo la strada fino in fondo, dove dei ragazzi ci fanno vedere il sentiero da dove sbucano i coloni: dicono che sono venuti, ma i soldati li hanno riportati indietro. “Va bene, allora per oggi andiamo, torneremo domani”. Alla sbarra c’era Sami (il contatto palestinese) ad aspettarci.
L’indomani torniamo, che è appena buio. Quando arriviamo in fondo, un ragazzo ci invita a scendere un poco più sotto, da un sentiero ripidissimo che termina con una scala. Troviamo varie persone al lavoro: stanno pigiando uva e mettendo subito il mosto a cuocere in un pentolone, produzione artigianale di mosto cotto. “Potete fermarvi a dormire qui?” Perché no, non abbiamo nessuno che ci aspetti, ed è evidente che l’arrivo dei coloni potrebbe rovinare in un colpo molto lavoro, facendo un notevole danno economico. “Ora portiamo un divano”. Dopo il divano arriva una gelatina di uva, sembra un “biancomangiare”, ma a base di uva, molto buona e nutriente. Dopo la gelatina arriva anche una coperta, dopo la coperta il the, poi un vassoio con olio e zaatar, lebanon, crema di melanzane, marmellata di fichi e, leccornia, mosto cotto mescolato con tahin!
Intanto si era messo a piovere, leggero ma continuo, ma freddo non se ne sentiva. Continuavamo a guardarci in giro per provare a sistemarci in tranquillità. Ma i nostri amici decidono che sicuramente i coloni sono meteo sensibili e quindi non ci sono rischi per la serata. Così un ragazzo ci accompagna in una casa lì vicino.
A differenza della tettoia malridotta sotto cui si pigiava uva e cuoceva mosto, qui siamo in una casa enorme, con grandi ambienti. Il ragazzo ci accompagna nella parte superiore, con una sola stanza usata, in cui ci sono quattro fratelli, con un computer aperto su FaceBook e una televisione. Di tre materassini in terra ce ne affidano due, e non ho capito dove siano andati gli altri fratelli. Nella stanza fa caldo e c’è rumore, un po’ rimpiangiamo di avere lasciato la tranquilla tettoia. C’è anche un ventilatore, mezzo smontato, ma anche a provare ad avviarlo a mano non va. Un bel po’ di chiacchiere, contro i coloni soprattutto, ma anche sull’agricoltura, su come è possibile viverne. Passa una nonna, si siede per un po’ anche un papà. Finalmente alcuni si ritirano e si spengono i rumori.
A un certo punto della notte mi sveglio e comincio a chiedermi perché fa freddo, poi perché mi si scoprono i piedi, poi perché tutto questo vento…. Beh, era partito il ventilatore! Direi che le sorprese con il freddo notturno siano proprio tipiche palestinesi.
Abbiamo fatto un’altra serata a Boweiri: stanno ancora lavorando a cuocere mosto, ma ormai parecchi bidoni di cotto sono pronti. Di nuovo un po’ di chiacchiere, ma anche questa volta non si vedono i coloni: certo, arrivando li avevamo visti in cima alla collina. Basta la nostra presenza a tenerli lontani?
A Sussya, oltre che durante il sukkot, quando abbiamo trovato la strada israeliana intasata da macchine e autobus del pellegrinaggio a quella assurda sinagoga, ci siamo tornati venerdì sera. Jamal sabato scorso aveva avuto la terra invasa da pastori israeliani. E’ dall’anno scorso che avevo visto un gregge guidato da coloni, ma allora si tenevano alla larga. Ora scendono sulle terre dei miei amici anche con parecchie capre e le mandano in mezzo agli ulivi a fare danni. Jamal si guarda bene dal reagire violentemente, sa che andrebbe sicuramente in prigione. Così chiama polizia e esercito nella forma di qualche ufficiale al di sopra del solito soldatino che lo controlla e che non fa niente contro il pastore-colono. Insomma c’è stato un casino. Quindi Jamal ci ha chiesto di ritornare venerdì sera per vedere cosa sarebbe successo il sabato.
Ma il mercoledì le mamme sono convocate alla scuola di Sussya, se ho capito bene per la programmazione. Decidiamo così di accompagnarle, è da un po’ che volevo vedere la scuola. Nick (ora gli hanno detto che Nick è troppo simile a una parolaccia in arabo e hanno proposto di chiamarlo “Nasim”, rugiada) e io prima passiamo nell’accampamento di fianco, dove c’è una jeep di soldati, dove constatiamo che non creano problemi, e aspettiamo che le mamme si preparino: finalmente le vediamo, belle agghindate per presentarsi a scuola. Le raggiungiamo, e Sanah (la moglie di Jamal) mi fa cenno di mettermi in spalla il piccolo Mohammed. Così ecco la comitiva pronta.
A scuola c’è anche la visita di una delegazione dell’Unicef che distribuisce quaderni e matite, prende nota dei problemi e se ne va. Noi facciamo una comparsa nelle classi, i maestri chiedono di farci vedere di più, anche la scuola è a rischio demolizione, insieme ai villaggi del circondario.
Quando venerdì ritorno con Maia, già di sera troviamo varie jeep di soldati al posto del solo soldato alla torretta, e con i lampeggianti accesi. C’è una notte di quelle meravigliose. Stanotte dormo nella tenda, con solo un lembo della tenda alzato, uno spicchio di cielo stellato e un bel vento freddo. Alle cinque e venti ci alziamo, e via con le pecore. Anche oggi pare che il soldato sia addormentato, non dice niente quando ci nascondiamo alla sua vista, un po’ più in alto del limite imposto, ma dove con la rugiada c’è un bel po’ da mangiare.
Quando ci spostiamo un po’ vediamo arrivare altri mezzi militari: hanno in mano fogli con cartine e con i binocoli cominciano a scrutarci. Dopo un po’ in tre scendono verso di noi e chiamano Jamal, ma arriviamo anche io e Maia, ragazza italiana che da venerdì mi accompagna. “E’ vietato agli stranieri, andate via di qui o entro cinque minuti vi arrestiamo”. “Ma di chi è questa terra?”, chiedo rivolto a quello che parlava di più inglese (l’altro che parlava in arabo non mi aveva voluto rispondere). “E’ terra palestinese,” e si prende una gomitata dal soldato che gli è di fianco (come dire: ma cosa dici!). “E allora perché non possiamo starci noi e il nostro amico?” “Perché io ho detto di no!” Mi sono messo a ridere, ma Jamal, all’idea di vedermi arrestato, subito si allontana: “andiamo, andiamo”. Dopotutto le pecore avevano mangiato per un’ora e mezza.
Saliamo all’abbeverata, e poi di nuovo a giocare con i bambini: è sabato e non sono a scuola. Penso a quei soldati, che magari avevano la buona intenzione di essere lì a controllare che non venisse il pastore-colono a fare danni, ma che non sono capaci di comunicare, come mi pare normale tra esseri umani: sanno solo minacciare, e non riesci mai a vederli come chi deve solo svolgere un lavoro di sorveglianza, quanto come chi vuole mostrare continuamente la cattiveria dell’occupazione e, come sempre, del razzismo che ci sta sotto.
Venendo a Sussya avevamo trovato il solito anziano con le pecore, ma stavolta era a sonnecchiare nella tenda: di venerdì c’è un nipote che lo sostituisce con le pecore! E così, dopo vari inviti precedenti, ci siamo fermati con lui per il the. E al ritorno di nuovo, mentre le sue pecore erano rientrate dal pascolo per mettersi all’ombra, lui, con anche il nipote, ci aspettava per un altro the. Questa volta siamo scesi nella grotta al fresco: proprio un bel posto, poche parole, un bel the, qualche domanda anche al nipote.
1 ottobre 2012
Insieme andiamo a trovare i pastori da cui ero stato già due volte. Mentre stiamo andando a piedi all’accampamento, ci sentiamo chiamare. Tutti i greggi sono in vista; raggiungiamo così l’anziano (un po’ più giovane di me) da cui ero stato il giorno che mi aveva inseguito il colono. Abbracci calorosissimi.
Ci raccontano una storia assurda: la settimana prima erano saliti sotto il solito insediamento abusivo (Avigail, si chiama), e ai coloni che intervengono cercano di spiegare che i militari gli hanno riconosciuto l’uso di quel pascolo. Ma ciò non basta certo ai coloni arrabbiati, i quali cominciano a bastonare le pecore. Nahel, così si chiama il ragazzo che era con me l’altra volta, chiede aiuto al soldato che è lì e li guarda: nessun intervento. Nahel spintona un colono, ma intanto una pecora muore, una abortisce, tre perdono un occhio. Nahel viene fermato con l’accusa di aver tentato di sparare ai coloni, passa sei giorni in tre prigioni diverse, deve pagare 5.000 scekel per essere scarcerato, con l’obbligo settimanale della firma fino a un processo che non si sa quando avverrà! Erano così tristi e bastonati. Gli ho detto: “Appena posso vengo un giorno”, ma hanno detto: “No, per ora stiamo il più lontano possibile da quella zona”….
1 ottobre 2011
Jamal mi chiama, alle sei e mezzo di mattina: ci sono coloni che stanno scendendo verso di lui e le sue pecore. Gli posso solo dire che verrò di pomeriggio, se a Hebron non succede niente. Pare che i coloni pretendevano che se ne andasse: “Questa è terra di Israele”. “Questa è la terra dove abbiamo camminato per generazioni!” Per fortuna sono scesi anche i soldati ad allontanare i coloni e non è successo niente.
Quando il pomeriggio arrivo, sul service trovo un ragazzo che fa il dottore all’ospedale di Hebron. E’ stato a studiare in Ucraina! Parla inglese, russo e ucraino, e racconta di quanta solidarietà per la Palestina viene dall’Ucraina. Scoperta nuova. Poi da una casa in costruzione mi chiamano, “Abu Sara”, ormai anche i ragazzi di Al Kharmil mi conoscono. Appena taglio in mezzo agli ulivi, trovo un uomo con asino che riposa all’ombra: “Siediti”. E’ stato direttore della scuola a At-Twani, ora cura i suoi ulivi e mandorli. Indica il suo asino e ride, “scommetto che tu un mezzo di locomozione così non ce l’hai”. “Veramente ne ho cinque”, e giù a ridere! “La prossima volta vieni per un the”. Scendendo per le colline già il primo pastore (quello del barbone e degli abbracci) sa che ci sono stati casini. Poi Ahmed, che è sempre il primo che incontro, scuote la testa sconsolato: ”mushkila,mushkila” (problemi..). Jamal mi sta chiamando al telefono. “Dov’è” chiedo al fratello, “là in fondo”, e così mi avvio. Racconti, scambio di lezioni: vuole imparare qualche parola inglese in più, partiamo dall’arabo e io gli dico le parole in inglese. Tra le novità, i soldati sono venuti a chiedere se avevano l’autorizzazione per il pozzo, l’ultimo scavato. Sembra ridicolo, sanno bene che non autorizzano mai niente, se glielo chiedi! Non ho capito come è finita. Abbeverata alle pecore e rientro.
Domani dobbiamo partire ancora prima, destinazione nuova: il mercato del bestiame a Yatta. Poi per cena, una “ribollita”: pane duro in un brodo di pomodori e jameed. Buono, non mi era ancora capitato. La notte non è come a Tuba: c’è anche una bella luna, ma il problema sono le strade intorno, dove circolano jeep di soldati e ogni tanto anche coloni. E i cani abbaiano. Questa notte poi c’è anche un asino impastoiato, ma libero di girare e appena si avvicina tutti i cani abbaiano. Addio tranquillità. Comunque, per la notte, la tenda è stata alzata, così vedo un bel po’ di stelle.
Jamal ha un pickup, di quelli grossi, con due file di sedili e un capiente cassone. Si vede in qualche foto con i bambini. Al mercato dobbiamo andare, Jamal, suo padre, una zia, io e tre pecore da vendere. Come ci mettiamo? E’ vero che le pecore si possono legare, ma potrebbero saltare lo stesso. La zia invece sicuramente non salta! E allora Jamal e suo padre davanti, le pecore sul sedile dietro, la zia e io ci dobbiamo arrampicare nel cassone, alle cinque di mattina. “Fa freddo”, mi dice la zia, che fa fatica a tenersi il velo in testa!
Tanta gente e tante pecore. Come tutti i mercati, ognuno gira offrendo la sua merce. Tanti vendono due o tre animali, tanti invece vendono dei gruppi molto più numerosi. Vedo arrivare anche Yusef, anche le sue pecore sicuramente erano dentro la macchina, non è venuto con il trattore. Parecchi camion con fieno. Varie conoscenze, che mi salutano, uno dei ragazzi da cui andavo l’anno scorso, un pastore che era a Tuba sabato scorso e un altro che fa avanti e indietro da Hebron. I miei sembrano soddisfatti della vendita, 250 shekel il becco di Jamal e 180 ciascuno i due, più piccoli, della zia.
Lasciamo il padre di Jamal da un genero e tiriamo fuori da un magazzino il trattore di Jamal, che parte solo a spinta. Ha delle commissioni da sbrigare e un elettrauto da trovare, così scorazziamo per un po’ attraverso Yatta in mezzo a tantissimi ragazzi che stanno andando a scuola. Finalmente troviamo un elettrauto aperto: un banco di lavoro coperto di roba vecchia, scaffali che trasudano pezzi usati, pavimenti ricoperti di ferraglia. In mezzo un uomo che, appoggiato a una morsa su un angolo del bancone, smonta un alternatore. Quando ha finito quello, viene a vedere il nostro: “possiamo cambiare le spazzole, senza smontarlo, ma non so se basterà”. Infatti non basta, ci vuole anche l’indotto, e allora no, non bastano i soldi, sarà per un’altra volta. Torniamo al pickup, lo carichiamo di granaglie e di acquisti vari e torniamo a Sussya. Colazione, e parto, a piedi.
Faccio un giro un pochino più lungo, un arco che però non scende molto nella valle, insomma, mi tengo dove c’è più aria. Così sbuco sulla strada un po’ più avanti: c’è una scuola di campagna che non avevo mai visto. “Dove vai? Vieni qui”. Mi fermo, “Sto andando a Yatta”. “Aspetta, ti porteremo”. “Acqua? – dopo un po’- biscotti?” “Aspetta”. Campanella, ed ecco una classe che esce ad incontrarmi. “Faccio il the”? Bambini, fotografie, chiacchiere, da dove vieni, cosa fai. Un maestro un po’ troppo fissato con la religione: tutti dobbiamo morire, tu poi sei più vicino di noi (bella scoperta, ho un po’ di anni in più), e, per avere la vita nella Geenna, bisogna pregare: “No, -gli dico- Allah vuole bene anche a chi non prega. E ora devo andare”. “Ti portiamo quando finisce la scuola”. “E no, devo arrivare ad al Khalil e poi a Ramallah. Vado”. “Aspetta almeno il the”. Finalmente il the, poi gli abbracci, torna a trovarci.
30 settembre 2012
A Sussya si va a letto ancora prima, domani è giorno di mercato e Jamal vuole vendere tre agnelloni, i primi nati di questa estate, due prima che arrivassi io e uno quando c’ero io. Questa volta non ci sono altri passeggeri, siamo solo io e Jamal e le pecore sul sedile dietro. Ho scoperto che non avevo capito il prezzo degli ovini. Non si fa in shekel, moneta israeliana, ma con il dinaro giordano, che era in vigore prima di Oslo e che viene ancora usato per certe transazioni, come appunto il commercio di ovini.
Dopo un’ora, senza cedere sul prezzo, Jamal riesce ad ottenere 430 dinari, quasi 400 euro, che mi pare enorme per tre agnelli che saranno sui 25 kg. “Con quello che costano le granaglie che compro!” dice Jamal, “i soldi spariscono a pagare debiti già fatti”.
4 novembre 2012
Lunedì 8 ottobre, verso l’una, una chiamata in arabo: “abbiamo grossi problemi, potete venire?”
Due telefonate di controllo, ed eccoci in viaggio. Raggiungiamo At-Twani con un service e poi, insieme a due ragazzi di Operazione Colomba, saliamo a piedi fino alla collina di Am Mufaqara. E’ un bel paesino, saranno una decina di famiglie. Alcune case in muratura, delle tende, dei prefabbricati forniti dalle Nazioni Unite. Sulla collina di fronte si vedono le entrate di una serie di grotte, con muri a secco che completano le abitazioni. Pare che dopo l’evacuazione del villaggio nel 1999 non le abbiano più utilizzate.
Appena fa buio, ci accorgiamo che non c’è la corrente elettrica, e si usa un generatore per la serata. E’ allora che mi rendo conto che proprio un anno fa era per portare la corrente qui che stavano mettendo i pali, alla cui demolizione da parte dell’esercito ho purtroppo assistito. E anche ora è questo paese ad essere preso di mira.
Avevano iniziato a costruire la moschea – scuola per il paese. Poi erano mancati i soldi, e solo da poco un finanziamento ha permesso di riprendere. Ma proprio nella mattinata di lunedì si presenta una jeep dell’esercito con l’ordine di sospendere i lavori. “Verremo a controllare, se continuate procederemo ad arrestare i responsabili”.
Quando arriviamo, in una tenda è in corso una specie di assemblea: probabilmente le decisioni sono già state prese e ora si stanno illustrando agli internazionali chiamati a dare aiuto. La sostanza è che le leggi israeliane sono ingiuste: non è possibile che nelle colonie ci siano tutti i servizi, dall’acqua corrente, alla luce, alle scuole, e che invece ai palestinesi non solo non si garantiscano questi servizi, ma non si permetta neanche di avere il proprio luogo di culto. “Non accettiamo la legge israeliana, quindi questa notte continueremo il lavoro alla moschea”. Si tratta di incementare la soletta. Intanto anche l’organizzazione del lavoro è proseguita. Ufficialmente, quando c’era l’esercito, tutte le attrezzature erano state allontanate dal sito della costruzione, il mucchio di pietrisco ed il cemento erano stati coperti. Si preparano due trattori con annessi carrelloni per accedere da due direzioni diverse: uno con un montacarichi smontato e tavoloni per camminare sulla soletta, l’altro con un carico di sabbia ed una impastatrice. I due mezzi convergono.
Viene segnalato un posto di blocco all’uscita di Yatta, ma per fortuna i materiali sono già più vicini. Viene montato e messo in posizione il montacarichi, poi una pausa per una cena veloce. Intanto si è alzato un bel vento freddo che ha pulito il cielo dalle nuvole della giornata e lasciato il posto ad un cielo stellato grandioso. Arrivano anche la sabbia e l’impastatrice, ed ecco all’opera una squadra edile di Yatta, decisamente professionali. Quattro persone a caricare nell’impastatrice sabbia e pietrisco, uno a mettere l’acqua, uno a mettere i sacchi di cemento. Uno manovra impastatrice e montacarichi, altri quattro lavorano sulla soletta a spianare il cemento. Ad ogni luce di macchina sulla strada, vengono rallentati i lavori e spente le luci, ma tutto il lavoro viene svolto senza intervento dell’esercito. Per le dieci e mezzo, tutti a bere the, Am Mufaqara per ora ha vinto. Verranno a demolire anche questa moschea, come è già successo, ma il paese ha dimostrato una grande determinazione, non mollerà.
Al mattino tutto sembra tranquillo. Hanno messo gli uomini a dormire in una grande tenda, dove con il trapuntone che mi copre ho addirittura caldo e rimpiango di non essere stato messo fuori come a Tuba, a guardare le stelle tutta la notte. Ora c’è il solito movimento delle prime luci: donne a prendere acqua ai pozzi, bambini che collaborano mentre si preparano per la scuola, pecore che si avviano ai loro pascoli desertici, ma umidi a quest’ora. I ragazzi raggiungono a piedi una strada, dove arriverà un pulmino per portarli a scuola a At-Twani. E’ la strada su cui i movimenti questa notte inducevano a interrompere il lavoro.
“Venite a fare colazione”: c’è il solito pane appena sfornato, intinto in olio, e the. I due ragazzi di Operazione Colomba rimarranno fino alle undici e poi avranno un cambio turno. Maia e io possiamo avviarci. La mia proposta è appassionante: girare tutte le colline, incontrare un po’ di pastori, anche quelli che non ho ancora rivisto, arrivare a Sussya, poi rientrare a Yatta, tutto il percorso evitando colonie e out post. Maia si dice contentissima di seguirmi nelle mie follie. Il giorno prima invece una nostra collega di una certa età e di un certo peso aveva girato per le colline a sud di Hebron con un funzionario, con il suo gippone UN. A lei era andata bene così, aveva raggiunto i villaggi, ma in ben altro modo. Noi abbiamo altre intenzioni.
Facciamo il percorso dei ragazzi per il pulmino, ma la strada asfaltata la scavalchiamo subito: sulla nostra sinistra c’è l’outpost di Avigail, quello dei più cattivi, da cui l’anno scorso mi avevano inseguito con sassi e bastoni e da cui avevano attaccato un gregge. Qualche preoccupazione mi assale: meglio tenersi alla larga, è di pochi giorni fa che hanno picchiato qualcuno di Ta’ayoush. Quindi scendiamo in fondo alla valle, per nasconderci dai coloni, e risaliamo sulla collina successiva.
Ecco il primo gregge con pastore: è uno con la barba, forse è quello con cui sono stato l’anno scorso. Siamo in controluce, non può vederci, e mi rendo conto che sta temendo che siamo coloni. Quindi saluti in arabo, da più lontano possibile. Non è quello dell’anno scorso, eppure accetta tutti gli scambi di amicizia: quanto bene gli fa sapere che giriamo le loro colline a portargli la nostra solidarietà! Capisco che deve avere una base più vicino a Yatta, sul lato della montagna che abbiamo di fronte. I pastori con cui ero uscito l’anno scorso erano più vicino ad Avigail, e sull’altro lato. Dopo avere girato intorno a quella montagna, ecco che vediamo due greggi con due ragazzoni: devono essere i due figli, come l’anno scorso. Conosco il punto dove attraversano la strada israeliana, per cui non mi preoccupo di salirgli incontro. Tra l’altro sono oramai le nove e mezzo, ora in cui stanno certamente tornando agli accampamenti. Vedo anche loro preoccupati che possiamo essere coloni, ma devono a un certo punto riconoscermi, ed eccoci all’incontro.
C’è una stradella che attraversa la via principale: prima attraversa un trattore con attrezzi da raccolta olive, poi separatamente i due greggi, anzi, ce n’è già un altro di qua, ad un pozzo per l’abbeverata. E’ divertente la scena dei greggi che si alternano all’acqua, obbedendo a dei comandi semplici. E’ bastato che il pastore si sia fermato e abbia alzato le mani, per avere una frenata complessiva, per cui un gregge è fermo al sole, aspettando il turno. Un gregge va, un altro arriva, un altro si ferma in attesa, sempre greggi intorno al centinaio di pecore.
Tutti sollevano un polverone nella calura che ci accompagna. E’ sempre impressionante un pozzo nel deserto, anche se siamo in un fondo valle e non, come altre volte, quasi in cima alla collina. Quello che abbordiamo per primo è il ragazzo che l’anno scorso è stato arrestato quando i coloni gli prendevano a bastonate le pecore. “Come sta tuo padre? Lo troviamo all’accampamento? Veniamo con te”.
Nel polverone delle pecore ci arrampichiamo sulla collina: non ricordavo che questa zona ha delle colline con pendenze così ripide, profondi valloni le separano. Troviamo papà che aspetta le sue pecore: un gruppetto del gregge più grosso si stacca dal resto e si avvia alla propria destinazione, papà gestisce le sue pecore separatamente, ma non le porta fuori, si limita ad aspettare che rientrino dopo avere pascolato con le altre, anzi le sgrida in malo modo quando cercano di fermarsi a rubare il mangiare alle sorelle: lui si era distratto per salutarci e le pecore rubavano! Il ragazzo ora sta trattenendo le sue, mentre quelle di suo padre vanno nel loro recinto.
“Accomodatevi, ora facciamo il the”. Noi siamo fradici di sudore, sono due ore che camminiamo di buon passo, il riposo ed il the sono proprio necessari. “Come è finita l’anno scorso? Ricordo che avevate pagato la cauzione per il rilascio del ragazzo, ma poi?” “Poi ancora più soldi per pagare una multa!” Non sono bei ricordi. Le donne, anziane, sono bellissime nei loro vestiti, ma in questo accampamento manca qualcosa: ambedue i figli non sono molto svegli, e non sono sposati. Così non ci sono bambini e tutto è così diverso dall’accampamento di Jamal dove siamo di solito, con i 16 bambini che ci circondano sempre (e il terzo fratello ha da poco preso una seconda moglie, perché non ha figli con la prima). Qui, su una collina bellissima, circondata da colonie, c’è più silenzio. Un po’ di foto, un po’ di racconti. “Fermatevi a mangiare”. Però ripartiamo, vogliamo arrivare anche a Sussya.
Giù per il pendio, fondovalle con ulivi, su per il pendio successivo, ed eccoci sulla via di Sussya, ma da una parte nuova. Anche a metà mattina qualche bambino ci accoglie, ci sono i più piccoli e Hamza, il figlio maggiore di Yussef, che dice che non c’è nessuno: di nuovo le mamme sono a scuola e i papà sono partiti per lavorare a raccogliere olive oltre la frontiera. Ci sediamo ad aspettare. Maia aveva anche promesso a Sanah di portarle una crema per il sole e le sta scrivendo un biglietto per lasciargliela. Ma Hamza sente una voce, è papà! Ci affacciamo, i due fratelli, con in spalla uno zainetto di sopravvivenza, stanno rientrando un po’ scornati: era pieno di soldati dappertutto, impossibile passare. Erano partiti da casa di notte, alle due e mezza, ma non ce l’hanno fatta, eppure Jamal è subito sorridente, corre a preparare il the, e arriva con the, pane, olive e il suo solito liquido che rimane dallo yogurt. Poco dopo arriva anche Sanah, e sono tenerissimi mentre lei gli racconta che i bambini devono certo studiare, ma sono bravi tutti e tre. “Come, volete andare via? Rimanete fino a domani”. Ma Maia vuole andare fino a Nablus per fare due giorni di olive e io devo rientrare a vedere come va ad Al-Khalil.
Eccoci di nuovo in strada per l’ultima tratta della giornata, quella solita. Ci teniamo sul giro un po’ alto, chissà che arriviamo alla scuola di campagna quando sono ancora lì. Avevo incontrato il maestro ad Al-Khalil e mi aveva ripetuto l’invito ad andarli a trovare. Probabilmente sbagliamo per pochi minuti, non c’è più nessuno e così rientriamo.
Ci aspettano olive, non solo a Nablus. Anche ad Hebron arriva una chiamata. “Stiamo raccogliendo olive a Tel Rumeida – che è la collina dove viviamo – vicino ai soldati”. Facciamo il giro dall’alto ed ecco padre e figlio che raccolgono, arrampicati su uno di questi alberi millenari, “romani” li chiamano, come in Sicilia abbiamo gli ulivi saraceni. Non ero mai salito su un albero del genere: le olive sono fino a sette o otto metri dal suolo, su alberi tenuti abbastanza diritti, senza rami troppo allungati, così si riesce ad arrivare più o meno a tutte le olive. Riusciamo a finire tre alberi. Sotto gli alberi, al momento del the, un incontro strano: un uomo, classica tenuta da colono, con cappellino, camicia lunga bianca e barba lunga: però anziché il fucile ha in mano una chitarra e canta “amiamoci tutti”. Dice che quelli della Lega per la difesa degli ebrei ce l’hanno con lui perché parla con i palestinesi.
Quando siamo a casa dei nostri amici, a giornata finita, pochi passi sotto la “sorgente di Abramo”, uno dei posti più battuti dai coloni, ci chiamano da poco più lontano: “Vi siete persi la battaglia, volevano fregarci le olive, ma le abbiamo riprese”.
Quello che ci aveva chiamato la mattina era stato un altro, con alberi proprio sotto la casa di Baruch Marzel. Li non era andata bene come da noi: un gruppo di coloni era arrivato con telone e scala e si era messo a raccogliere olive della casa di “Youth Against Settlements”. Altri avevano preteso di rubare olive già raccolte da Jawad e la sua famiglia. Inizialmente i soldati avevano lasciato fare i furti, ma poi, con l’aiuto della polizia e qualche grande litigata, le olive erano state riconquistate.
L’indomani ci troviamo con Jawad poco prima delle nove e andiamo al suo posto. A qualche metro dal cosiddetto “check point Gilbert”, poco lontano da casa nostra, c’è la casa di sua mamma, dove abita anche un fratello. Di fianco alla casa, alcuni alberi enormi e dei capannoni. Jawad ci spiega l’attività che vi si svolgeva, fino a che le forze di occupazione gliela hanno vietata: in un capannone, recupero di rame da roba usata e preparazione di stampi in rame; nell’altro, elettrolisi e zincatura, più nichel. In qualche modo rinnovavano anche ricambi per automobili. Un pezzo del terreno era stato sequestrato per farvi una torretta militare, ma di fianco a questa i coloni hanno fatto un allevamento di polli e hanno demolito un muro di separazione, per cui ora possono entrare a fare danni come gli pare. Dal 2000 questa azienda è nell’impossibilità di funzionare. E i coloni piano piano gli hanno demolito tutto. Almeno nel giardino circostante ci sono sei ulivi millenari, da cui ancora la famiglia può ricavare il proprio olio.
La giornata di giovedì passa tranquilla, raccogliamo le olive di un albero veramente enorme, quattro persone sull’albero e non so quante donne e bambini sotto a pulire e raccogliere. Qui ho dovuto pretendere una sega e far tagliare un po’ di rami, sia per entrare nell’albero che per accorciare certi rami troppo lunghi. Jawad mi è parso contento dell’aiuto e ci ha offerto anche un bel pranzo con la solita makluba, decisamente superiore ad altre occasioni. Intanto però anche Idris (quello da cui abbiamo raccolto mercoledì) ci aspettava. Da lui torneremo appena possibile.
E’ un’altra figura eccezionale, imprenditore con terreni a ulivi, macellerie e anche un ristorante. Uno di 26 tra fratelli e sorelle, con pezzi di famiglia in tanti paesi e dimestichezza a parlare lingue, qualche anno più di me, ma salta sugli alberi che è un piacere. Oggi abbiamo incontrato un suo fratello, che chiedeva come muoversi per Al-Khalil, conoscendo più il tedesco che l’arabo!
Venerdì siamo andati alle manifestazioni, mentre Jawad raccoglieva olive con la famiglia, avendo anche più aiuto dato il giorno festivo. I soldati non volevano farli lavorare, al che lui ha contrapposto l’autorizzazione ottenuta il giorno prima. Così incominciano, ma subito arrivano un po’ di coloni a gridare: “lasciate quelle olive, sono per noi!” I soldati pretendono di interrompere il lavoro vista la presenza dei coloni che loro non sanno contenere. Due fratelli di Jawad finiscono con i polsi legati e portati al check point. Lì c’è oramai una trentina di coloni arrabbiati e i palestinesi vengono picchiati, uno finisce all’ospedale. Conclusione: tutto il lavoro sospeso e divieto anche di lavorare il sabato per tutti, anche per Idris. Abbiamo girato a controllare, tanti contano di riprendere domani, ma Jawad ha ancora il divieto, pare che il giorno autorizzato sarà il 15.
6) Nablus e le olive
Nablus è nel nord della West Bank, tutto intorno ci sono le vallate con gli uliveti più belli, ma c’è un orribile dispiegamento di colonie su tutte le colline, non c’è famiglia Palestinese che possa raccogliere le sue olive senza vedere incursioni di soldati o di coloni.
Di pomeriggio, dopo il rientro, è Nizar a portarci in giro per Nablus, le due famiglie insieme, la sua e quella della sorella, con sei bambini che scorazzano per i vicoli, bellissimo.
Anche Nablus conserva l’impianto romano, con il suo anfiteatro stranamente decorato con pesci e non con animali terrestri. I Romani che hanno mantenuto l’impianto precedente, da città cananea. La città sorge tra due file di colline, per cui non è stata mai fortificata. C’erano delle strutture difensive sulle colline. La città era autodifesa dalla strettezza dei vicoli e dalla contorsione degli stessi, che impediva il movimento di truppe. C’erano archi così bassi da impedire il passaggio di cavalieri. Gli israeliani durante la seconda intifada hanno bombardato una fabbrica di sapone per aprire un varco ai loro tank, e comunque i loro carri armati non si fermano certo per la strettezza dei vicoli!
29 ottobre 2012
Rientro a Nablus a passaggi, anche se è già buio si riesce a trovarli. Dal lunedì si parte per le olive, e ne ho fatto tre giorni, con tre famiglie diverse. La mattina ci presentiamo presto, verso le sette; siamo lì per tutelare la loro sicurezza, ma intanto diamo una mano nella raccolta, e io da raccoglitore abituale in Sicilia, divento il più richiesto. Prima mi viene da pensare che sono disorganizzati, al punto da sembrare svogliati, poi mi rendo conto che è tutta la vita che il loro lavoro viene svolto all’ombra di soldati e coloni: come si fa ad avere ancora voglia di lavorare?

Certe piante non sono mai state pulite sotto, ma probabilmente è perché sono venuti i soldati a farli smettere. Ed è quello che succede il mercoledì mattina: siamo divisi fra tre famiglie, nella stessa zona sotto un insediamento di coloni, quando arriva una pattuglia a farci smettere: “Oggi è vietato, domani raccoglierete”; ma sarà poi vero? Rassegnati, tutti si avviano verso una zona più bassa. I soldati controllano che non risaliamo e se ne vanno; eppure riescono a venire altre due pattuglie! I primi scendono dalla jeep e si piazzano vicino a noi a telefonare: evidentemente la risposta era positiva per noi, perché se ne vanno; la seconda pattuglia gira con un gippone enorme in mezzo agli ulivi, rompendo rami e fregandosene. Io e Patrick andiamo a chiedere cosa fanno, chi paga i danni; nessuna risposta, finché se ne vanno. Ma in condizioni simili non passa la voglia di lavorare? Eppure quei contadini sono lo stesso contenti: oggi Allah è grande, la giornata è bella, abbiamo amici che ci aiutano e si raccolgono tante olive! Il mio ruolo allora, anziché criticare la disorganizzazione, è di stimolare e incoraggiare, sistemando meglio i teloni sotto gli alberi, chiedendo il seghetto per fare qualche pulizia negli alberi, e con il mio poco arabo li faccio felici! In tarda mattinata arriva sempre la colazione, humus fatto in casa, pomodori, salse varie, formaggio fresco di pecora e pane a volontà.
Dopo aver finito, verso le quattro, ci si avvia tutti da una famiglia numerosissima (quella del mio primo giorno) che prepara eccezionali pranzi palestinesi; famiglia di grassi, che ti obbliga a stramangiare: una volta melanzanine ripiene di riso e carne, la seconda volta un riso con spezie e frutta secca tostata, oltre a involtini indefiniti; sempre, il formaggio fresco e delle insalate. Per fortuna io ho spiegato che ad una certa età non posso più mangiare troppo, così assediano col mangiare solo i giovani!
14 ottobre 2011
Dopo l’ultima manifestazione sono rimasto a Nablus, per dedicare quattro giorni alla raccolta delle olive.
E’ sempre complicato organizzarsi; ci sono intorno una decina di villaggi con cui siamo in contatto e a cui è stata offerta la disponibilità di collaborazione, ma ogni giorno bisogna telefonare al nostro referente in loco, per sapere se raccolgono, cioè se in quella zona non ci sono divieti. L’inglese che tiene il coordinamento per la zona, non capisce più niente….. Certi giorni siamo a Nablus in 18, senza neanche il posto per dormire; certi giorni solo 8, e allora non sa dove mandare l’aiuto! La forma della nostra collaborazione è diventata che ci si presenta presto e si va a raccogliere olive insieme ad una famiglia, almeno cerchiamo di controllare che si lavori in una zona a rischio. Ma perché una famiglia piuttosto che un’altra? Alla fine sembra che siamo solo mano d’opera a basso costo!
Io ho insistito che, quando possibile, si giri anche dalle altre famiglie che si vedono raccogliere; qualche volta è stato fatto, qualche volta no, perché è meglio aiutare una famiglia a finire, finché sta andando bene, senza incursioni di coloni. Quanto a me, ho cercato di cambiare sempre e di mettere più tempo a spiegare come vanno potati gli alberi; qui raccogliere è complicatissimo, perché ci sono olive dappertutto, ma troppo rade. Il tempo di raccolta non è proporzionato al risultato, ma a loro va bene così, perché tutti fanno così, e questo spesso è il loro unico lavoro con reddito. Per la potatura e la pulizia non ben fatta, continuano a scusarsi con il limite che viene messo al loro lavoro: “Se vengo a lavorare troppo spesso mi cacciano!”
Si raccolgono anche le olive da terra! Prima non capivo, ma poi mi hanno spiegato che si vendono a metà prezzo, per le fabbriche di sapone: è una antica tradizione palestinese fare il sapone dall’olio d’oliva, e per questo continuano a comprare le olive da terra di qui e, pare, olio di scarto dal resto del Mediterraneo; comunque il sapone è ottimo.
Il primo giorno torno a Burin, paese in cui ero già stato l’altra settimana. I bambini che ci accompagnano alle olive si ricordano: “Abu! Abu! Quello che sta in equilibrio sulla testa!” (ogni tanto mi esibisco per gruppi di bambini). Sono della famiglia vicino a dove avevo raccolto olive. Questa volta saliamo molto in alto, c’è vicino l’insediamento dei coloni, ma per fortuna non succede niente.
Il secondo giorno, in un paese nuovo, Yatma, dove raccogliamo con due famiglie diverse, sempre vicinissimi ad una colonia ancora senza recinzioni e con case in costruzione. Terzo giorno di nuovo a Burin, con un uomo simpaticissimo che avendo un vecchio trattore è addetto a molti degli spostamenti; lui, dopo le olive di terra in un posto, ci porta in un altro, tutto fiero delle olive che ci sono lì, ma sono sempre rade! L’ultimo giorno in un paese, Beit Furik, dove sono finalmente autorizzati a raccogliere, dopo esserne stati cacciati due giorni prima: delle balze sassose molto belle, che salgono su una collina, vicinissima ai coloni.
Spesso la cosa più bella è la colazione insieme o, quando succede, la cena. E’ bello il loro modo di preparare e offrire, humus, salsine e pomodori a colazione, mentre a cena siamo al pollo con riso chiamato Makluba.
21 ottobre 2011
Stamattina sono andato a Burin, vicino a Nablus, uno dei paesi dove già avevo raccolto olive un anno fa. Lì ho cercato Ghassan, il ragazzo che tiene in mano il centro giovanile. In piazza un anziano per cui ho raccolto olive mi riconosce, mi chiama: fa panini con i felafel, e subito me ne fa fare uno, ma non vuole che lo paghi! Ghassan mi mostra il centro nuovo che stanno costruendo, in una bellissima costruzione antica, ma adesso sono fermi perché sono finiti i soldi.
Racconta che ieri sera i soldati sono venuti ad arrestare un ragazzo. Si sa che è l’inizio di una catena: domani ne arresteranno un altro, dicendo che il primo ha fatto dei nomi, e avanti così. Ghassan vorrebbe che una ragazza andasse a parlare con i soldati, vediamo se più tardi Alba verrà a fare il tentativo. Racconta anche di essere stato chiamato dai soldati e minacciato: “Non vogliamo vedere internazionali tra i piedi quando si raccolgono le olive”. Lui ha risposto che quello è il suo paese e non dei soldati, che qui è benvenuto chi piace a loro e non sono certo benvenuti i soldati. “Allora ci rivedremo in prigione”, gli ricordano. Non sarebbe la prima volta.
23 agosto 2012
Ghassan e Alba si sono sposati, e hanno due bambini, ma purtroppo lui, papà felice, passa ancora troppo tempo nelle prigioni israeliane, come i cari soldati gli avevano promesso!
7) Valle del Giordano
Gli ultimi giorni sono stati molto diversi. La campagna della raccolta delle olive partiva a rilento, e a Nablus eravamo già arrivati in tanti; allora io ho deciso di spostarmi nella valle del Giordano. Veramente prima ho fatto un giro nella città vecchia a Nablus, compresa la ricerca del barbiere, per me e per Patrick. Anche Nablus ha il suo mercato con dedali di viuzze e grandi tratti coperti, veramente uno spettacolo, anche se in certi punti era asfissiante, caldo e senza aria! Effettivamente ha fatto ancora dei giorni di gran caldo.
Sistemate le barbe, prendo il service per Jiftlik (20 km a ovest di Nablus), nome impronunciabile, uno dei cinque villaggi maggiori della valle del Giordano. Prima osservazione, è la strada: poco dopo Nablus, ci si infila in una valle che scende, ma proprio tantissimo: Da 800 metri sopra a 250 metri sotto il livello del mare! Lungo la valle che porta là, si trovano alcune tra le più fiorenti aziende agricole della zona; si vedono impianti di irrigazione, ortaggi, asini con aratri, trattori….. Evidentemente c’è acqua sotterranea e terreno fertile, ogni volta che la valle si allarga.
Arrivo a Jiftlik, dove c’è una casa collettiva che viene gestita da una comunità della valle del Giordano. All’arrivo, the e chiacchiere nella casa di fianco, poi trovo dove sono i miei: che conosco c’è Rosa, un’inglese che, a parte venire alle manifestazioni del venerdì, vive qui da mesi. Trovo un madrileno che parla un ottimo arabo (è qui da tre anni), ed altri; hanno una macchina in prestito di uno dei volontari palestinesi e usciamo per una visita alla valle. Ci si aspetterebbe grandi zone desertiche, oasi ogni tanto, pastori liberi di scorazzare dappertutto, invece siamo sotto completo controllo israeliano. Tutte le oasi sono diventate colonie, i pozzi requisiti; i pastori vengono confinati in zone delimitate, chiusi come in riserve indiane; le chiusure non sono recinti, ma profondi solchi con un terrapieno di fianco, tutto realizzato con le ruspe, e chiaramente non attraversabile dalle greggi. Ogni tanto il fossato è interrotto da cancelli chiusi, che vengono aperti ogni due o tre giorni per permettere l’approvvigionamento di acqua. Di fianco ai cancelli, blocchi di cemento con la scritta: “Firing area”, cioè “attenti perché siamo autorizzati a spararvi”. E infatti ci sono stati due morti ammazzati nell’ultimo anno; per uno, bontà loro, si sono anche scusati.
Facendo un giro contorto riusciamo ad arrivare ad un grande accampamento: parecchie tende, vari gruppi familiari, moltissime pecore e capre che pascolano sulle desertiche colline intorno. Anche qui, delle baracche un po’ più stabili, alcuni mesi fa, sono state distrutte dai soliti soldati. Vedo vari serbatoi per il trasporto dell’acqua: due volte al giorno i pastori palestinesi devono andare a caricare acqua, pagandola. Prima le pecore andavano ad abbeverarsi all’oasi vicina, ora c’è un enorme insediamento israeliano, pieno di alberi, che occupa tutta la parte migliore della vallata; si tratta di sole 30 famiglie, contro le 400 famiglie di pastori che vivono lì intorno!
The nel deserto e un po’ di spiegazioni; intanto arriva un camioncino a caricare pecore: significa che comunque l’attività funziona, gli animali si vendono. Continuiamo il giro, a vedere altri due grossi villaggi. Ci sono alcune belle aziende agricole anche qui, molto più in difficoltà che quelle dei coloni, sempre per il fatto che l’acqua è interamente sotto controllo israeliano. Di fronte a noi la Giordania: di là si vede tutto sviluppato tranquillamente: villaggi, serre, ortaggi, strade sulle colline; un’impressione di ordine e sviluppo rurale, che qui è possibile per i coloni, ma non per i Palestinesi.

Tra noi e il Giordano (dove quasi non scorre acqua), terreni persi, ancora minati! Quanto durerà questa valle? I pozzi israeliani sono sempre più profondi; pare che ora scavano a 140 mt. Un altro villaggio, che era un campo profughi, semi distrutto; ora gli israeliani vogliono togliere il po’ che rimane per farne una colonia, credo che qui si stia realizzando un altro centro comunitario. I Palestinesi hanno perso le loro aziende agricole. Troviamo lavoratori che ora sono occupati nelle stesse aziende di prima, ora però sono solo braccianti di aziende in mano ai coloni.
Torniamo alla casa. Il cuore della casa sono tre stanze con il tetto a cupola, antiche; di dietro, rinnovato da un paio di anni, una parte coperta con frasche e tettoie, è dove si vive di giorno; davanti alla casa, c’è lo spazio dove si fabbricano i mattoni per le sistemazioni intorno. Spunta la testa di un serpente: “Guardala bene, è una vipera; spero che va bene se la ammazzo!” Detto e fatto, con una bastonata ben assestata in testa.
I mattoni si fanno con il fango e degli stampi, asciugano al sole; il fango si fa con la terra che c’è intorno: per fortuna qui non piove quasi mai, se no questi mattoni si disferebbero come la neve al sole! E poi le costruzioni si disfano e si rifanno; quando gli israeliani abbattono qualcosa, poi si rifà!
Fa troppo caldo per lavorare ora, quindi si cena presto ed è al buio che ci rechiamo al centro comunitario in costruzione: dalle sette alle dieci e mezza, quattro file di mattoni doppi (muri larghi due mattoni, circa 30 cm.), vengono realizzate. Un filo a piombo? Mai visto. Una lenza per fare i muri diritti? Non c’è, si sposta ogni volta una barra di ferro, si mette in posizione a occhio, e si fa un pezzo di quel muro. Una cazzuola? Ma no, perché, si usano le mani! Un mucchio di terra dove si impasta il fango, dei secchi che pesano sempre di più perché il fango si attacca dappertutto; io mi metto a trasportare fango perché mi rifiuto di mettere giù mattoni a pressappoco. Comunque a poco a poco i muri vengono su: si tratta di tre belle stanze su una veranda antistante. Grande faticata, sporchi da fare schifo, anche se è solo fango, e alla fine gli dico: “Bravi, è bello!” Una colazione alle 23 (sempre pane e humus, pomodori e peperoni, qualche salsina), e poi a casa, a lavarsi i pantaloni e le scarpe, perché non mi sono portato dietro un cambio! Stendere il bucato nella notte tiepida, domattina sarà asciuttissimo!
Il giorno dopo, domenica, ho promesso di tornare a Nablus per partire con la raccolta delle olive; ma prima un po’ di pulizie in “casa”. Il pavimento in terra battuta raccoglie di tutto; la cucina è solo un fuoco dentro una specie di cappa; anche qui grande sporcizia.
Deve arrivare un gruppo di visitatori. I palestinesi portano il pasto (riso e salsa ai funghi), mentre io preparo the e caffè sul fuoco; gli altri preparano una grande insalata in stile arabo (mucchi di verdure a pezzettini su piatti piani). Arrivano una quindicina di francesi! Quasi tutti di una certa età, con interessi vari, così tocca a me dare tutte le spiegazioni, con ogni tanto un intervento di Rosa, che io traduco. Molti i discorsi interessanti. Poi, mentre aspetto che venga un po’ più fresco per avviarmi, il palestinese che aveva prestato la macchina mi chiede se sono disposto a lavorare. Gli altri stanno andando via prima di me, così mi metto a impastare fango, per fare una spalletta all’esterno della cucina, che finirà con un arco. Finalmente riesco a far trovare un filo a piombo, così gli sistemo una lenza fatta bene: il muretto cominciava a pendere un po’ troppo…… Spero che la vipera non avesse parenti, perché siamo sempre vicino al punto dove l’ho colpita!
14 ottobre 2011
Domenica eravamo stati invitati a raggiungere “Ma’an”, una organizzazione di difesa della Valle del Giordano. Vicino a Gerico, dove poi abbiamo fatto un giretto nel tepore estivo della sera, c’era da ripristinare un canale di raccolta e convogliamento di acqua. Il pozzo che c’è a monte non dà più acqua, dopo che gli israeliani ne hanno scavato uno di fianco, molto più profondo, per rifornire la loro colonia. Ma il canale raccoglieva anche l’acqua piovana e quella che scola dalla montagna, quindi dovrebbe portare acqua per lo meno da novembre a marzo; solo che era in condizioni pietose, pieno di sterro, di immondizie, di pietroni, di canneto. Con l’aiuto di uno scavatore e di tante braccia nostre, abbiamo liberato un lungo tratto; ora avrebbero finito da soli, dopo aver dimostrato che non ci voleva molto!
Ci sono già un po’ di belle foto, sulla strada che scende al Giordano, sulle pecore e sul canale…. Ci siamo sentiti un po’ usati come manodopera da poco, ma almeno c’era anche un discreto numero di palestinesi che lavorava….. Bello poi salire lungo il canale, a levare pietre che lo ostruivano anche lì. Sotto una pietra abbiamo trovato il temuto scorpione….
30 ottobre 2011
8) Nabi Saleh
E’ un paesino a nord ovest di Ramallah: qui nel 2009 una sorgente viene confiscata e assegnata alla colonia di Alamish. Da allora per parecchi anni ci sono state manifestazioni ogni venerdì. E’ il paese dove anche le donne e le ragazze sono nei cortei, e sempre davanti!
Comincia qualche lancio di lacrimogeni. I ragazzi del paese ci chiamano per asserragliarci nella casa più alta. Ma a quel punto non si capisce più niente: dei soldati erano già dentro la casa e sparano un lacrimogeno, poi cercano di uscire, accolti da una sassaiola. Sparano lacrimogeni a caso, più per proteggersi la via di fuga che altro; ne ho visto uno inciampare e cadere con una faccia spaventatissima. Con tutte le loro armi non sapevano che fare….. Per una volta siamo rimasti noi padroni del paese! Qualcuno voleva inseguire i soldati, ma si è dovuto rinunciare perchè c’era uno stato generale di debolezza dovuta al ramadan.
Ora alcune considerazioni: come si fa a mettere delle armi sofisticate in mano a dei soldatini sprovveduti? Cosa non potrebbe succedere se sbagliano più di quanto hanno fatto? La settimana scorsa invece c’erano dei riservisti che hanno messo il paese a soqquadro, giornalisti pestati, zaini rovesciati e sempre la minaccia che dobbiamo andarcene da lì, perché loro la fanno diventare zona militare! Foto 21

Torniamo a qualche giorno fa, alle manifestazioni del venerdì 19 agosto: sono andato di nuovo a Nabi Saleh, la manifestazione più grossa, dove anche ora sono convenuti un gran numero di soldati. Anche oggi non c’è il posto di blocco all’ entrata del paese, per cui almeno saliamo con calma, verso le dieci. La funzione religiosa del venerdì è proprio lunga, mi chiedo quanti proclami alla resistenza ci saranno; d’altronde almeno qui è quello di cui hanno bisogno.
Partiamo. Oggi uno striscione in arabo, attaccato su una specie di baldacchino. La strada sembra libera, ma loro saranno in attesa; noi andiamo giù nel canalone, come l’altra volta, e ci lasciano scendere un bel po’. Poi partono i candelotti per respingerci sulle nostre posizioni. Soldati compaiono sul lato destro del villaggio, una pattuglia è anche dentro il villaggio, ci hanno tagliato in due. Le case si riempiono di gas, ma tanto il gas ha una durata breve, devi lasciarlo diradare. Quando ne sparano tanti devi aspettare.
Io mi sono trovato la strada chiusa perché tra due muri ne scoppiavano un casino; i miei compagni che sono corsi avanti si sono riempiti i polmoni e gli occhi. Io invece ho aspettato che il fumo si diradasse e poi sono andato. Cosi anche per quelli sparati in mezzo ai due gruppi: i soldati hanno provato ad entrare in una stradina per poi scendere ai loro mezzi, ma la stradella che hanno preso era chiusa e così sono risaliti sparando come pazzi per poi entrare nella stradina successiva. Non riuscivo a capire cosa succedesse, cosa li avesse spinto a tornare indietro e a sparare come dannati e con le facce spaventate; finalmente riescono ad uscire, inseguiti da qualche sassata. Anche quelli sull’altro lato della strada sparano le loro granate di avvertimento, ma non vengono più avanti. Anche per questo venerdì è andata.
Mi chiedo anch’io: ma servono, queste battaglie? Eppure bisogna essere lì, per capire che urlo alla vita sia: ci siamo, esistiamo, non ci schiaccerete né ci caccerete, noi abbiamo diritto a rivendicare la nostra terra!
22 agosto 2011
Venerdì a Nabi Saleh. Come al solito, il ritrovo prima in una casa e poi sotto il gelso, che è nella piazza della moschea. Si vede subito che si prospetta qualcosa di grande: molti volontari israeliani, molti internazionali e molti palestinesi!
Solito avvio all’uscita dalla moschea. Bel corteo rumoroso. Ormai ci sono stabilmente anche delle ragazze del paese. Si decide per il percorso alto e per la discesa dall’alto della collina. Sembra che ci siano pochi soldati, solo nel fondovalle dove, ma io non lo avevo ancora capito, l’anno scorso si sono appropriati della sorgente che riforniva il paese. Tutta la collina è occupata da manifestanti, e improvvisamente ecco l’attacco. I soldati convergono da due punti e cominciano con i lacrimogeni: giornata jellata, il vento è a loro favore! Se anche ti sposti dal fumo dei lacrimogeni, lo stesso ti arriva la lacrimata violenta. Ritirata da questo primo fronte. Si risale al paese, ma i soldati non ci seguono ancora, e allora giù in mezzo ai campi sotto il paese, di nuovo fino alla strada. Tornano con le jeep, saltano giù e ricominciano a sparare lacrimogeni.

Risaliamo un po’, e poi di nuovo giù su un altro versante, con un occhio alla loro torretta di guardia: non c’è nessuno, si potrebbero cacciare i soldati! Però se ne accorgono anche loro ed arrivano due jeep, ma mi pare che i soldati sono ancora solo una ventina, che corrono, sudano, sparano come pazzi. Momento di stallo, non si può arrivare davanti alla torretta e intanto i soldati non attaccano, cercano di riorganizzarsi. Nuovo fronte, di nuovo dalla strada che sale. Stavolta i soldati riescono ad entrare in paese, dove li aspetta un bel gruppo di shebab con i sassi.
I soldati sparano ad altezza uomo; sono lì anch’io, e cerco di sganciarmi, ma ho sempre intorno gli shebab. Comunque i soldati non cercano me. Gli shebab compaiono e scompaiono, tirano un po’ di sassi e spariscono, quelli sparano sempre, ma sempre più a caso; ci infiliamo nell’uliveto vicino e i soldati decidono la ritirata. Un momento di tregua.
Bisognerebbe vedere l’energia di questi ragazzi, come corrono, come scavalcano le nubi di lacrimogeni, come riescono anche a ributtargliene indietro; qualcuno ogni tanto rimane intossicato, si ferma cinque minuti a sputacchiare e poi via di nuovo. I soldati battono in ritirata e lo devono fare in buon ordine, quindi risalgono verso il punto più alto della collina, continuando a sparare, come se mirassero a tenere la posizione; ma gli shebab incalzano, anche il vento adesso è un po’ girato. Partono i frombolieri: non molta precisione, ma tiri lunghi che comunque disturbano i soldati. Quelli, che da quattro ore corrono con tutta la loro bardatura, devono essere esauriti. Ma avanti ancora con i sassi, fino a un grido di allarme: arrivano due camionette con la “Border police”, i più cattivi (sono quelli che hanno pestato Jude ieri).
Scendono due squadre che arrivano dall’alto del paese, dove si erano allontanati, ormai in fuga precipitosa, i venti soldati di prima. Sono in contatto radio tra loro, non come gli shebab, ma non capiscono dove sono i ragazzi. Di colpo non c’è più nessuno. I soldati passano attraverso a internazionali, donne e bambini, senza nuocere; ora ritornano indietro con circospezione, fino a che al crocevia centrale come dal nulla ricompaiono gli shebab e gli fanno sberleffi: qua siamo! Soldati in corsa di nuovo, lacrimogeni dappertutto, ma di nuovo, dopo un po’ di sassate, non si vede più nessuno. Finalmente un po’ depressi, un po’ incazzati, salgono sulle loro camionette e proseguono, verso un altro paese; ne deduciamo che devono ripassare da qui.
Si preparano le barricate: su un casotto tipo fermata del bus, vengono ammucchiati sassi, anche una latta di vernice; forse uno ha preparato una molotov. Ma per un bel po’ non arriva nessuno. Intanto c’è un coro di ragazze sedute in mezzo alla strada, ci sono anche le donne che preparano sassi. Internazionali siamo rimasti pochi, ma i palestinesi ci sono tutti, anzi sono aumentati e sono sempre ben agguerriti.
Finalmente arriva dalla valle un altro convoglio, quindi un numero enorme di soldati che andavano ad un altro paesino; il nuovo convoglio trova i blocchi stradali, si devono fermare una prima volta, mentre si prepara il secondo blocco. Sparano lacrimogeni, ma poi devono risalire e andare via, bombardati da sassi e grida di trionfo; anche venerdì scorso quando io non c’ero, una jeep in paese era stata massacrata a sassate. Un trafiletto di notizia sul giornale del giorno dopo dice che una jeep ha preso fuoco, quindi la molotov c’era e ha funzionato!
11 settembre 2011
E partiamo per Nabi Saleh. I miei poco colloquievoli compagni israeliani parlano solo tra loro in ebraico, e io mi addormento. Alle tre siamo a Nabi Saleh. Al mattino, siccome gli shebab avevano preparato dei blocchi stradali con le pietre, i soldati portano una ruspa a liberare la strada: che bel bersaglio, una ruspa che non può scappare! Gli shebab devono proprio essersi divertiti, nonostante tutti i lacrimogeni ricevuti… Tanto, appena la ruspa se ne va i blocchi vengono rifatti!

Una prima discesa verso la sorgente dopo un po’ viene respinta. Quando arrivo io si è in una situazione di stallo. I soldati si vanno riunendo tutti all’entrata del paese, dove hanno una torretta di guardia e una specie di check point che possono chiudere, e che infatti chiuderanno subito: voi fate i blocchi? E noi chiudiamo la strada.
A un certo punto ci sono là dieci tra jeep e mezzi blindati, ma con tutto questo spiegamento di forza non osano lo stesso attaccare verso il paese. Quando gli shebab si avvicinano a tirare sassi, loro preparano una sortita con un gruppetto di soldati, che corrono verso i ragazzi e sparano. Come al solito i ragazzi scappano più in fretta dell’avanzare dei soldati! Quello che è grave è che non sparano più lacrimogeni, ma pallottole ricoperte di gomma. Non era ancora mai successa una cosa così. Ogni tanto fanno una cortina di lacrimogeni nella direzione in cui sono anch’io, ma le sortite verso i ragazzi con le pallottole di gomma vanno avanti fino al buio. Non devono avere una grande mira, ma quando colpiscono un palo metallico senti che la pallottola è fortissima; comunque per sera pare che non ci siano troppi feriti.
E’ chiaro che stanno alzando il livello dello scontro. A un certo punto è arrivato anche un camion di “skunk water”, cannone ad acqua che spara ad una ventina di metri un liquido puzzolentissimo che ti si attacca ai vestiti e alla pelle. Parte il tiro, non raggiunge i ragazzi, ma prima di arrivare a terra, il vento lo riporta sui soldati, che scappano accompagnati da un coro di risate! Il camion se ne va e ricominciano le sortite dei soldati con pallottole ricoperte di gomma. Alla fine hanno il solito problema per sganciarsi: non possono scappare tutti insieme, tentano di lasciare fuori qualcuno per sparare, ma i ragazzi si avvicinano molto di più e bombardano di pietre i mezzi; qualche pallottola o qualche lacrimogeno non li fermano più. Intanto io e altri quattro che erano con me arriviamo al di là dei soldati, sulla strada principale, da dove appena passa un service rientriamo a Ramallah. I soldati erano ancora quasi tutti là, circondati da un odore di carogna: il risultato della skunk water!

Qualche considerazione: a cosa serve un simile spiegamento di forze se non si approda a nulla? Si stanno preparando per cose più grosse? Uno degli israeliani che era lì diceva che i suoi compaesani militari gli facevano pena. Ricordava la disfatta in Libano nell’ultima guerra. Se poi tutto questo serva veramente….. Wikileaks ha trovato dispacci americani su quanto l’esercito israeliano cominci a sentirsi frustrato per tutte queste manifestazioni pacifiche in West Bank!
18 settembre 2011
Il corteo parte come sempre con i suoi slogan; sempre più agguerrito il gruppo delle ragazze palestinesi. In più rispetto al solito, si pensa ai detenuti: due si ammanettano per ricordarli.
Dopo la curva della strada, come sempre, i soldati ci attaccano: una scarica di lacrimogeni da lasciare senza fiato. Comunque ci si riorganizza, e sia ora che dopo un pò, di nuovo, sono le ragazze a prendere lo striscione, scandire slogan e affrontare i lacrimogeni. E’ stata una ragazza la prima ferita. I soldati si limitano a respingerci ogni volta che si torna a scendere; ogni tanto arriva anche un rubber bullet, più che altro si stanno ritirando verso la torretta di guardia, ma prima, appena arrivano dietro la curva, ci bombardano a mitraglia, saranno arrivati cinquanta candelotti contemporaneamente. Finalmente si ritirano ai loro blocchi intorno alla torretta e da lì ricominciano il tiro al bersaglio e le sortite in avanti. Sembra proprio che stanno facendo del training, usando la gente per bersaglio! Fanno anche un attacco con due jeep, di corsa sulla strada per arrivare vicino ai ragazzi, saltano giù e sparano a vista, ma devono pure risalire e ridiscendere, e quello è il momento della sassaiola: finalmente anch’io tiro il primo sasso alla jeep! Ma è pure la loro festa, per cui decidono di andarsene, cosa strana, alle quattro. Lasciano alla torretta una squadra che scopriremo di otto soldati.


Gli shebab cantano vittoria e partono ad assediare la torretta, con un lancio sempre più preciso, visto che non c’e’ nessuno a contrastarli. Poi parte una sortita degli otto soldati che si erano nascosti, ma gli shebab hanno conquistato i blocchi di difesa dei soldati e non temono i rubber bullet! I soldati ora devono chiamare i rinforzi! Quando tornano tre jeep, si riprendono i blocchi e fanno arretrare gli shebab. Io ora sono alle spalle dei soldati, bella posizione per foto, ma qualche sasso arriva anche vicino a me. Ora stanno sparando candelotti lacrimogeni, ma ad alzo zero, per fare male veramente. Di nuovo le jeep se ne vanno; il sole sta tramontando, anche i nostri si avviano in su. E’ incredibile, rimangono solo un gruppo di ragazzini, il più grande avrà dieci anni, c’è anche una ragazzina che si diverte ad allontanare i lacrimogeni a calci; tirano sassi e quegli stronzi di soldati sparano ad alzo zero!
Mi distraggo e mi espongo, mi sparano, su una gamba, tiro secco da una decina di metri. Credo che ho fatto in tempo a vedere che mi sparava e a girarmi un poco, così il colpo non è stato diretto, ma un pò di striscio. Ho un bel segno su una gamba e fa un gran male. Se fosse arrivato dritto mi spezzava la gamba. Non mi dimenticherò: fino a che dici sparano ad alzo zero è una cosa che sembra lontana, quando ti colpiscono è un’altra cosa.
7 ottobre 2011
Il service ci lascia ad una curva, è presto ma hanno già bloccato l’entrata del paese. il paese di Nabi Saleh è sopra di noi. Saltiamo giù, con noi c’è anche un ragazzo della mezzaluna rossa, Karam, che diventerà l’uomo dei training per ISM. Fatti pochi passi per i campi, ci sentiamo gridare da dietro: “Fermi”. Sette o otto soldati, da dove sono sbucati fuori? Dove erano nascosti? Via di corsa su per la collina, e quelli dietro, ma, come in altre occasioni, sono troppo carichi per prenderci. Meglio non riderci sopra: e se chiamassero una jeep ad intercettarci più su? Via ancora, più in fretta possibile, fino a nasconderci dietro una casa e tirare il fiato.

La manifestazione poi è breve, anche se ci sono stati tre fermati, quando il corteo è arrivato vicino alla strada. Invece pochi lacrimogeni e abbondante uso di pallottole di gomma-acciaio per cacciare i ragazzi che tirano sassi. E’ morta una delle anziane e si prepara il funerale, per cui al posto di assistere a ore di combattimento, veniamo invitati ad un pranzo offerto dai parenti. Come ai matrimoni, riso con spezie e pollo, più insalata e yogurt, per tutti quelli che si presentano. Anche qui uomini in un locale e donne in un altro. Una Nabi Saleh diversa dal solito, mentre l’accoglienza del mattino ci aveva fatto temere il peggio. Il peggio invece lo hanno passato i nostri compagni, a Kufr Qaddum: di nuovo invasione del paese, inseguimenti fin nelle case, lacrimogeni alla Moschea, da cui la gente ha risposto con un lancio di scarpe contro i soldati. Ma dei nostri sei, quattro arrestati. Portati prima alla colonia illegale di Qedumim, poi imprigionati vicino a Tel Aviv con l’accusa di lancio di pietre e di presenza in zona militare. Se l’accusa di lancio di pietre è proprio ridicola, il fatto di dichiarare un villaggio zona militare la dice lunga sulle pretese di democrazia di questo paese. Se è zona militare non puoi avere amici a casa, se è zona militare non puoi recarti alla moschea, e avanti così. E tutto questo perché? Per non consentire alla gente di Kufr Qaddum l’uso della strada più corta, sulla cui riapertura si è già pronunciata favorevolmente la Corte, anche se è sulla data di riapertura che non c’è certezza. Quindi anche in barba alla loro Corte, fanno diventare zona militare un intero paese. E procedono ad arresti: giovedì sera avevano arrestato tre giovani, durante la manifestazione i nostri quattro e due palestinesi.
Domenica pomeriggio altri quattro arresti. I nostri, processati ieri sera, sono agli arresti domiciliari a Tel Aviv, senza passaporto e in attesa, tra una settimana, di essere ceduti al ministero dell’interno per probabile deportazione. Che paese democratico!
23 settembre 2012
Sono tornato a Nabi Saleh con Maia e altri due. Eravamo pronti per la corsa in salita, ma siamo arrivati così presto che non c’era ancora il blocco alla torretta. Così siamo stati per un po’ da Manal che, nel suo ultimo tour in Italia, è stata ospite da Maia. Manal era in vena di raccontare. E’ molto bello tornare a Nabi Saleh, dove le donne sono parte attiva del comitato popolare e nelle manifestazioni. Il suo discorso più bello è presentare queste manifestazioni con un po’ di sassi contro soldati armatissimi, come la terza intifada, ma pacifica. “Le forze di occupazione fanno di tutto per piegare queste proteste, potrebbero anche decidere di ridarci la sorgente, ma a noi non basta, è l’occupazione in sè il nostro nemico, e non ci fermeremo se non finisce. Devono essere altri paesi a prendere il nostro esempio, gli israeliani ne hanno paura: se tanti villaggi facessero come noi, sono le forze di occupazione a non sapere cosa fare”.
14 ottobre 2012
E’ il paese di Ahed Tamimi, nipote di Manal, divenuta famosa per la sberla tirata ad un soldato che voleva entrargli in casa, e che le è costata 8 mesi di prigione. Quando c’ero io era una delle ragazzine scatenate!
Mentre Amnesty International si appella pubblicamente per la liberazione di Bassem Tamimi, platealmente pluriarrestato in quanto pericoloso organizzatore di manifestazioni pacifiche, l’esercito di occupazione a Nabi Saleh gli arresta il figlio quattordicenne, Wa’ed. La madre, Narimal, corre verso i soldati che lo hanno preso, qualcuno va ad aiutarla, e altri quattro finiscono arrestati.
Fin dall’inizio c’era qualcosa che non andava: troppi soldati, non ne avevo mai visti così tanti, almeno cinquanta.
Il corteo parte ricordando che oggi è il 95esimo anniversario del famoso documento Balfour, la prima promessa fatta ai sionisti, base di tutte le successive illegalità.
Anziché scendere dalla strada principale, saliamo nell’altra frazione del paese, verso la collina, con i soliti slogan e canti: i soldati sono già in cima alla strada e ci sparano lacrimogeni molto prima che si cominci a tirare un sasso. Non c’è vento che disperda i lacrimogeni, bisogna spostarsi e aspettare un po’.
Torniamo sulla strada, di nuovo il megafono grida il no all’occupazione e di nuovo lacrimogeni. Intanto si vede che anche dalla strada stanno salendo delle jeep e dei soldati a piedi sotto il paese. Al terzo o quarto tentativo di salire verso la collina, decidono di lasciarci andare, fino ad arrivare al contatto con loro.
Due jeep piene di soldati arrivano anche loro in cima alla collina. Il nostro gruppo anziché rimanere compatto si sfilaccia un po’: partono i soldati di corsa, come se volessero acchiappare alcuni manifestanti. Fuga precipitosa di un gruppo. I soldati abbandonano l’inseguimento, anzi lasciano che i fuggiaschi ritornino con il gruppo. Pian piano sono i soldati che cominciano la ritirata, scendendo dalla collina con molta lentezza. Il nostro gruppo tiene il contatto, per un po’ sono le ragazzine, poi un gruppo di internazionali, sempre attaccati ai soldati in ritirata. Così questi non sparano mai lacrimogeni.
Intanto dal lato del paese sta succedendo qualcosa: si vedono lanci di lacrimogeni tra le case e nell’uliveto soprastante. Probabilmente stanno cercando dei ragazzi. Infatti è così che viene preso Wa’ed: un gruppo di soldati si era nascosto in una vecchia casa e quando i ragazzi si sono avvicinati sono saltati su Wa’ed e lo hanno preso. Il nostro gruppo è ormai a metà della collina discendente, quando arriva la chiamata per Narimal: hanno preso tuo figlio! Lei si mette a correre per andare dove lo tengono e chiede di accompagnarla.
La prima che si muove per andare con lei è Eva, ragazza americana che è stata con me a Sussya, poi altri. I soldati lasciano passare, ma poi decidono di punire chi è là ad inveire contro di loro.
Mentre la battaglia tace, il casino è intorno alle jeep. Finisce che Eva, un israeliano e due fotografi, un francese e un israeliano, vengono arrestati e portati via alla stazione di polizia dell’insediamento.
Intanto la battaglia è ripresa, con un assalto di shebab verso i soldati che dapprima si ritirano, poi come al solito tornano all’attacco, con lacrimogeni, rubber bullets e altro: abbiamo trovato anche bossoli di armi da guerra, e non erano stati spari in aria. Però non assistiamo a molti su e giù. I soldati si ritirano presto alla loro torre all’entrata e non vengono più attaccati che da sporadici lanci di pietre. Comunque assistiamo alla gomma incendiata e rotolata verso i soldati ed a un rilancio di lacrimogeno che obbliga alcuni soldati a scappare precipitosamente.

Eva è stata rilasciata di pomeriggio. Gli altri tre internazionali sono ancora alla polizia, ma in via di liberazione. Ancora sotto interrogatorio è Wa’ed. (Undici di sera, orario di Ramallah, 2 novembre)
4 novembre 2012
9) Kafr Qaddum
Un paese a 7 km da Nablus, un passo per arrivarci. Ma una colonia (Qedumin) viene costruita sulla collina che sorge tra le due località. Oltre a sequestrare 4.000 dunum di terra Palestinese, pretendono che la strada sotto di loro venga chiusa per i Palestinesi, che devono così percorrere 25 km per arrivare a Nablus. Da allora, nonostante la sentenza di un tribunale che ordina la riapertura della strada, tutti i venerdì continuano fino al 2020 le manifestazioni, con una violenza senza senso, non c’è venerdì senza feriti, qualche volta anche gravi.
Decido di andare a Kufr Qaddum, e di restare poi a Nablus. Il paese è a soli sette km a est di Nablus: se solo potessero percorrere la strada principale! Ma gliel’hanno chiusa, pare fin dal 2003, così devono fare un lungo giro per le campagne, percorrendo 25 km al posto di sette! Da qualche mese hanno iniziato le manifestazioni (da luglio), avviandosi lungo la strada vietata, alle cui spalle si vede subito la colonia che i soldati devono proteggere. Kufr Qaddum è un bellissimo paese di 400 abitanti, arrampicato in cima alla sua collina, ma appetito anche dai coloni, che per ora hanno occupato la collina vicina. Oggi scopriamo che già una sentenza della loro Corte Suprema dà ragione ai palestinesi, i quali potranno usare la strada, ma solo dopo il 2012, per questioni di sicurezza.
Oggi i soldati sono vicinissimi al paese, hanno messo un reticolato spinato per fermarci. Al primo sasso lanciato, attaccano subito e raramente ho visto la determinazione e la cattiveria di oggi. Sono subito candelotti lacrimogeni sparati ad alzo zero, ce li vediamo passare vicinissimo. Al terzo colpo c’è un ragazzo vicino a me colpito peggio di me l’altra volta. Dopo avere liberato un po’ di strada a forza di lacrimogeni, i soldati che prima si erano aperti a ventaglio, coprendo anche le campagne, ora si riuniscono su un fronte unico e avanzano per “ripulire” il paese: l’impressione che ne ho ricavato è proprio di un rastrellamento. I ragazzi un po’ tirano sassi e un po’ arretrano. Noi siamo con loro; a un certo punto mi muovo come altre volte di lato, per fare foto alla loro avanzata, ma sono preso di mira: due soldati puntano verso di me ad armi spianate: ma siete pazzi? Continuano ad avanzare, io giro dietro un muretto; continuano ad avanzare, finché partono correndo con un urlo. I miei due amici gridano: “Corri Abu, che ti prendono!” C’è voluto uno scatto da centometrista per sfuggirgli! Per fortuna sono troppo carichi, li ho distanziati subito, se mancano la prima presa non ti raggiungono più!
Hanno continuato a suon di lacrimogeni, avanzando per cacciare via tutti, e noi siamo costretti a scendere dalla collina; poi si ritirano e tiriamo il fiato. I feriti sono stati messi nella moschea, i lacrimogeni non appestano più l’aria.
Proviamo a riprendere la strada, i ragazzi fanno il segno di vittoria, ma i soldati sono ancora lì e appena vedono che risaliamo, interrompono la loro ritirata per tirarci ancora qualche lacrimogeno. I ragazzi vengono invitati a smettere; se il lancio di lacrimogeni continuasse dentro il paese, si rischierebbe di perdere l’appoggio della gente, quindi meglio fermarsi, la nostra parte l’abbiamo fatta. Così scendiamo in una casa a trovare due ragazze che sono rimaste ferite in un incidente stradale, probabilmente causato intenzionalmente da coloni, e anche qui caffè per tutti, biscotti e cola. Le donne stanno con le due ragazze ferite, gli uomini a discutere in sala.
Tutti hanno partecipato al corteo, e continueranno la lotta. I soldati sono andati nelle campagne, come da noi ai tempi dei fascisti: per punizione della manifestazione, obbligo di interrompere la raccolta delle olive, domani sarà vietata completamente. I nostri ospiti dicono: “Anche così non ce ne frega niente; eravamo in questa terra prima degli inglesi e prima di tutti, non molleremo”. Poi ancora: “Solo la lotta paga, guardate quante chiacchiere fa Abu Mazen, non ottiene niente; Hamas invece con un prigioniero ha ottenuto 1027 liberazioni”.
Ed è evidente che è così: solo la lotta paga!
22 Ottobre 2011
Siamo nei giorni dello scambio di prigionieri; una lunga trattativa decide di liberare in cambio dell’israeliano Gilad Shalit, arrestato in una incursione a Gaza nel 2009, 1027 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Inutile dire che parecchi furono presto riarrestati. Io avevo partecipato a discussioni nelle tende per i detenuti su chi avrebbe dovuto essere liberato.
10) detenzione amministrativa, ancora colonialismo?
Mentre l’occidente si sta man mano staccando dal passato coloniale (magari lo stanno solo trasformando in un’altra forma di sfruttamento delle risorse), gli israeliani Indubbiamente ammettono di continuare la politica coloniale degli inglesi, dai quali conservano tutte le leggi che gli possono servire:
da Amira Hass su Haaretz del 24 ottobre 2020:
Una sentenza della corte suprema spiega i presupposti:
Agiamo secondo il Regolamento n. 119 dei Regolamenti di emergenza del 1945 del Mandato britannico che consentono al governatore militare di confiscare una struttura e demolirla se si sospetta che sia stata utilizzata per commettere un crimine (in questa occasione spiegavano come procedevano a riempire di cemento una parte di una casa)
Chissà quanti altri pezzi di regolamento di emergenza vengono usati dalla corte suprema per procedere alle sue sentenze.
E soprattutto resta in vigore la “detenzione amministrativa”, una delle leggi più tipiche di tutte le colonie, non solo inglesi. Una persona viene arrestata per un periodo di sei mesi, senza che venga formulata una accusa nei suoi confronti. Neanche un avvocato può venire informato delle accuse, che restano segrete. Il colonizzatore non può perdere tempo a cercare le accuse contro tutti! Ha altro da fare, e poi i colonizzati sono comunque degli esseri inferiori, che non si possono trattare secondo i principi democratici dei nostri paesi! Si arrestano e basta, si penserà dopo all’accusa, ma questo è il sistema per bloccare qualsiasi dissenso da parte del governo occupante. Come tale è una legislazione anacronistica, come anacronistico è il sistema coloniale: l’occidente lo ha abbandonato ufficialmente da settanta anni! Solo Israele ha conservato le leggi coloniali!
Attualmente Israele incarcera in detenzione amministrativa circa 400 prigionieri, i quali molto spesso alla scadenza dei sei mesi si vedono rinnovare l’ordine di detenzione.
Dopo avevamo appuntamento al “Palestinian prisoner’s society”: terribili storie di detenuti con anche dieci o venti anni di prigione. Stanno mesi con una specie di “fermo giudiziario” prima di dovere dar conto, per cui ci sono ogni giorno nuovi arresti e rilasci per decorrenza di termini; i bambini poi li possono arrestare a 12 anni.
16 agosto 2011
Intanto è in corso lo sciopero della fame dei detenuti nelle prigioni. Qualche manifestazione a sostegno, ieri anche una manifestazione davanti al carcere di Ramallah;
Oggi sono tornato a Beit Ommar. Manifestazione completamente diversa dalle precedenti: stavolta partiamo dalla piazza centrale, dove c’è la tenda a sostegno dei detenuti in sciopero della fame. Inoltre arrivano le notizie su chi saranno i mille prigionieri palestinesi scambiati con Gilad Shalit, il soldato israeliano prigioniero di Hamas da alcuni anni, e tutti quelli che non hanno parenti inclusi nella lista sono incazzatissimi.
Anche qui un po’ di preghiera in strada, e poi giù, lungo la strada principale: la nuova contesa è che l’esercito sta progettando di chiudere l’accesso principale, da cui si arriva ad Hebron in venti minuti, per obbligare la gente ad un giro contorto che potrebbe prendere fino a due ore! E così il corteo è molto partecipato e combattivo. Purtroppo Beit Ommar è un paese tradizionalista e non ci sono donne palestinesi nel corteo.
Chiediamo se aspettano liberazioni nello scambio famoso, invece no, né il figlio del nostro amico, né i tre figli di quello che parla un po’ di brasiliano e che era stato arrestato insieme a Jude, né il figlio del mayor, né nessuno di Beit Ommar sono nella lista.
7 ottobre 2011
11) 2020: nuova occupazione o annessione?
A questo punto direi cosa possono annettere più? Hanno già il controllo di tutto, l’area C viene continuamente allargata, il loro problema è che vogliono annettere territori Palestinesi senza i suoi abitanti. Il problema demografico per Israele è basilare, hanno paura che nel loro stato gli arabi possano diventare più numerosi degli ebrei. Gli abitanti delle porzioni annesse cosa diventeranno? Non possono inventarsi una cittadinanza di serie B, per esempio senza diritto di voto o senza diritto alla salute e all’educazione, se succedesse sarebbe finalmente la possibilità per il resto del mondo di riconoscere lo stato effettivo di Apartheid, cosa che per ora invece nessuno vuole vedere.
12) Ora ecco le tre settimane più intense che ho trascorso in Palestina:
Blitz palestinese sull’autostrada
Non è troppo presto, verso le nove, ma la sincronizzazione è eccezionale. Tre o quattro macchine di compagni israeliani rallentano il traffico su una delle principali arterie dei coloni intorno a Bil’in, road 443, fino a fermarsi al punto di incontro convenuto. Da strade laterali stavamo salendo sull’autostrada, una cinquantina di palestinesi, un bel numero di internazionali e parecchi giornalisti. Il traffico è bloccato. Anche qui i curiosi rallentano sull’altro lato per vedere cosa succede.
Gridiamo slogan contro l’occupazione, contro i coloni, sventoliamo bandiere palestinesi, uno si arrampica su un lampione e ne piazza due. Sembrerebbe che possiamo bloccare anche l’altra corsia, un camionista palestinese si è fermato e potrebbe mettere il camion di traverso.
Dalle macchine ferme, i coloni incazzati gridano “dov’è l’esercito, dov’è la nostra sicurezza?” Sono stati tutti spiazzati: per confondere i soldati era stata molto pubblicizzata un’altra manifestazione di protesta, che avrebbe dovuto rimuovere un blocco stradale israeliano a danno dei palestinesi, e là un po’ di soldati pigramente guardavano cosa succedeva. Noi stessi, convocati per la rimozione del blocco stradale, veniamo informati solo all’ultimo minuto del cambio di programma.
Qui il passa parola era stato silenziosissimo, avevamo il divieto di parlare dell’iniziativa al telefono, persino tutti i giornalisti convocati non hanno fatto trapelare niente, nonostante ci fosse anche Channel 2, una emittente statale israeliana. I cartelli che portiamo dicono “basta al terrorismo dei coloni”. L’argomento è pressante perché non passa giorno senza un atto di violenza dei coloni contro i palestinesi che raccolgono olive o che vanno semplicemente a lavorare nei campi, sempre con l’appoggio più o meno esplicito dei soldati. La ragione di fondo è impedire il sostentamento dal lavoro agricolo, quindi obbligare altri palestinesi ad andarsene. C’è chi dice anche che questi attacchi continui sono l’esternazione della rabbia contro il loro governo, che non li appoggerebbe abbastanza!
Comunque il blitz funziona. Ci vuole almeno un quarto d’ora per l’arrivo dei soldati: sono dei ragazzini già sudati prima di arrivare (hanno dovuto correre perché la strada era bloccata!) e cattivi, arrabbiati.

Cominciano a spintonarci, noi non molliamo, gridiamo più forte. Bombe sonore, ma non bastano. Spray al peperoncino, terribile, anche il poco che mi è arrivato è veramente fastidioso. I palestinesi sono abituati, uno si butta per terra, fanno per arrestarlo, un altro si butta ad aiutarlo, sono li anch’io a fare mucchio. Un soldato dà un calcio a quello a terra, gli dico male parole, mi spinge via, ma intanto hanno rinunciato all’arresto.
Avanti e indietro, spingi via qualcuno ma qualcuno ritorna, ma senza insistere molto, nessuno ha voglia di farsi arrestare o farsi picchiare di più. Continuano a spingere e a buttarci tra i piedi le bombe sonore. I palestinesi chiamano “Yalla, yalla”, probabilmente il blocco è durato mezz’ora.
Mentre ci ritiriamo infilo in una jeep dei soldati, tra il vetro a la griglia esterna, uno dei nostri cartelli con scritto “no al terrorismo dei coloni”: come si è arrabbiato il soldato che se ne è accorto!
Mi fermano per un’intervista, prima credo che siano palestinesi e comincio a parlare liberamente, poi le domande mi fanno capire che sono israeliani: non immaginavo proprio che potessero esserci, ma ormai era fatta. Domande come: “ma fino a poco tempo fa, qui usavano la violenza contro di noi”, “anche Nelson Mandela prima era in un movimento di resistenza violento, e poi tutto è finito bene”, “ma ci pensi a chi vive a Sderot?” “smettete l’assedio a Gaza, smetteranno i missiletti su Sderot”, “perché siete qui e non, per esempio, in Siria?”, “in Siria si giocano schieramenti e potenze, qui è l’occidente intero che appoggia uno stato razzista che vuole cancellare la cultura araba”, “se una cosa come questa succedeva in un paese arabo, quale sarebbe stata la reazione delle forze dell’ordine?”, “beh, io ti posso dire che anche in Italia si fanno queste cose, e non c’è questa reazione violenta”. E avanti così. Vedremo sabato, quando manderanno il servizio.
Un po’ di storie palestinesi: un giorno che siamo a raccogliere olive, su queste balze di Tel Rumeida con gli ulivi pluri millenari, sentiamo gridare da poco più lontano: è il nostro Idris che questiona con una famiglia, visibilmente a proposito di un albero e delle sue olive. L’impressione è che Idris finisca col concedere a quella famiglia di raccogliere le olive dall’albero che gli pende sulla casa. Ma mezz’ora dopo di nuovo grida, molto più forti.
Un altro gruppo familiare è sceso nella zona, tutti gridano, volano sassi, vari hanno in mano un ramo per darsele. Brutta scena. Il ragazzo americano che è con me si mette in mezzo, e pur di non coinvolgere nella rissa un internazionale che aiuta, la tensione si allenta. Il timore è vedere arrivare i soldati a dirci: “bravi, visto che litigate, ora teniamo questi alberi per i coloni”. Ma per fortuna non sono arrivati. Quello che ho capito è che, visto che Idris lasciava raccogliere da un albero, loro volevano prendersene vari altri.
Questi scoppi di violenza hanno una triste motivazione: anni di soprusi e di violenza dei coloni fanno accumulare dentro tanta rabbia che ogni tanto esplode. Un poco più tardi è sceso l’imam della moschea con l’incarico evidente di riappacificare.
Per mercoledì 17, viene previsto un incontro tra tutti per la pace. Dalle botte all’accordo.
Quelli della TV sono venuti a fare interviste anche nell’uliveto. Pare che il servizio sarà su cosa motiva gli stranieri ad essere a fianco dei palestinesi. Hanno fatto riprese della raccolta delle olive e interviste alla nostra ragazza e ai TIPH (Temporary International Protection Hebron), una specie di corpo civile di protezione, nato su iniziativa di vari paesi, successivamente al massacro nella moschea: girano con i gipponi, fotografano, scrivono, e nemmeno sappiamo a chi vanno i loro report. Abbiamo avuto la promessa che le nostre facce saranno oscurate nel servizio, speriamo che sia vero, e vedremo se fare sentire agli israeliani cosa pensiamo può servire a qualcosa.
Da marzo 2019 gli israeliani hanno anche preteso l’allontanamento definitivo di questa forza di controllo, TIPH: dopo tutto vuol dire che i loro rapporti arrivavano da qualche parte e qualcuno li leggeva.
Continua la raccolta delle olive sulla collina di Tel Rumeida. Ci hanno chiamato ad aiutare un’altra famiglia, Mohamed con moglie e tre maschietti scatenati. Si comincia proprio sotto i soldati che controllano l’insediamento di Baruk Marzel.
I soldati provano a dire che gli internazionali non siamo autorizzati ad aiutare, ma poi rinunciano. C’è anche un gruppo di francesi in visita, che per lo meno fanno numero, anche se come aiuto servono a poco. Mohamed è da solo sull’albero, quelli che ci hanno chiamato sono degli intellettuali Hebroniti che hanno altro da fare. Salto sull’albero, sempre ramaglia dentro cui non ci si muove. Ma ormai ho comprato un seghetto da potatura e attacco, prima per entrare nella chioma intricata, poi per aerare l’albero e per accorciare i rami troppo lunghi. Così almeno quelli a terra hanno da pulire i rami che butto giù, ma quanti rami rinsecchiti e quanta sofferenza in questi alberi che pure hanno olive!
Una notte non ho dormito pensando che toccava a me lavorare a questi ulivi millenari per rimetterli un po’ in sesto. Da allora ogni giorno ho una richiesta nuova: “mi sistemi un po’ gli ulivi?” Ogni giorno mi contendono: Abu Sara con noi, no Abu Sara con noi! Qualche albero lo voglio sistemare davvero bene, magari non come si farebbe da noi, ma almeno ringiovanire i rami troppo vecchi. I ragazzini di Mohamed vorrebbero prendermi il seghetto e lavorare un po’: al primo tentativo vedo una mano sanguinante (senza un lamento, beninteso), così metto il seghetto sempre più in alto per non farglielo raggiungere. Anche questi bambini si affezionano, abitano in fondo al mercato, poco oltre la cooperativa delle donne, e sono così altre voci che risuonano nel mercato chiamandomi.
Mohamed e sua moglie raccontano in giro del mio lavoro di potatore, e allora anche i ragazzi di Youth Against Settlement chiamano, stavolta non per delle azioni di protesta, ma per decidere come affrontare un ulivo davvero mostruoso come dimensione, ma veramente ingarbugliato. Lo abbiamo sgrossato, almeno per poter raccogliere le olive, ma ora dovrò dargli una forma, così anche agli altri alberi del loro giardino. I coloni sono sempre in giro, sembra un assedio, coloni e soldati che ci passano in mezzo, coloni che chiamano i soldati per farli intervenire contro di noi: “ehi, non potete stare su quel muretto”, oppure, tanto per rompere, “quel ramo sporge da noi, i palestinesi non possono raccogliere le olive, semmai gli internazionali” (ma non c’era il divieto opposto?).
Ci chiamano da At-Tuwani. Per il venerdì c’è in programma una grossa gita di almeno tre o quattro autobus di coloni da Qiriat Arba alle colonie del sud, Ma’on, Avigail e Suseya. C’è timore che vengano a provocare in qualche accampamento, proprio per nuocere alle famiglie palestinesi che spesso si muovono di venerdì per riunirsi tra parenti. Così ci impegniamo ad essere a Sussya fin dal mattino, anziché andare a manifestazioni.
Alle sette del venerdì ci muoviamo. Sono con un inglese molto silenzioso e un ragazzo italiano che è in giro da solo ma che si è unito a noi per l’occasione. Anche di venerdì mattina si riempie il service per Yatta, e ancora più in fretta quello per Al Karmil: mentre Hebron sembrava dormire nel giorno festivo, Yatta pare più animata del solito, con più commercio e botteghe aperte. E’ la solita camminata gradevole, di mattina anziché di sera. Prima sorpresa, non c’è più la tenda del pastore vecchietto, ha smontato tutto. Due ragazzi su un asino: “ma il mio amico?”, chiedo, “più in là, verso At-Twani”. Pazienza, un the in meno sulla strada.
Quando arriviamo a Sussya, uno strano silenzio, dove sono i sedici bambini chiassosi? Troviamo solo Ahmed, il fratello minore che, nell’accampamento più vicino alla strada, con le mogli e la suocera, sta sistemando un telone supplementare sulla tenda delle pecore. Sono preparativi per l’inverno, anche Jamal ha messo un telone in più. Ma gli altri? “Tutti a Yatta a macinare olive”. “Come, hanno finito in un giorno?” Pare proprio di si.
Intanto su, facciamo un the. Spieghiamo la ragione della nostra presenza quella mattina, mentre ci scambiamo telefonate con i ragazzi di Operazione Colomba. Hanno avvistato la colonna di bus e soldati sulla strada “Bypass”, sono diretti più avanti. Noi siamo di guardia, ma non si registra alcun movimento, così ci spingiamo fino alla “antica sinagoga”. Proviamo a entrare, un custode ci viene incontro: c’è da pagare il biglietto. No grazie. “Ma davvero là davanti ci sono i resti di una sinagoga?” “Beh, così dicono, ma non sono nemmeno sicuro se sia lì o là” (indica due zone del perimetro recintato). Andiamo bene, se neanche il custode crede alla palla della sinagoga!
Torniamo al nostro accampamento.
Nella tenda di Yusef ci sono le mogli e un po’ di figlie. Lasciati gli zaini da Jamal, andiamo: ancora the, foto, Francesco ha una bella macchina e ne fa tante con i bambini. Poi un pranzo con pomodori saltati, patate fritte, olio nuovo e sempre pane ottimo.
Finalmente arriva il pickup di Jamal, pieno dentro e stracarico dietro, con ragazzi arrampicati sopra i sacchi di mangime per le pecore. Ora venite che facciamo il the, poi sarà ora di portare fuori le pecore. Preparo macchina fotografica e seghetto, e andiamo. Vediamo, dice Jamal. Ora seghetto alla mano, faccio vedere e gli spiego come potare gli ulivi. Belli, ammette, e intanto con i rami potati, ecco un po’ di leccornie per le pecore. Potrei andare avanti, ma mi ferma, dicendo che per il sabato avrebbe avuto gente a potare e sarebbe stato meglio spiegare a loro. Così ci mettiamo a sistemare delle viti che ha tra i sassi e gli ulivi e che sono mezze abbandonate. Aggiustiamo dei supporti e le potiamo un bel po’. Era ora! Qui hanno sempre paura di tagliare, ma ormai è molto chiaro anche in un proverbio in arabo: “un ramo dice al padrone: se tagli quel ramo così vicino, io ti darò tante olive, quelle che dovevo fare io e anche più di quelle che avrebbe fatto l’altro ramo”. Più tagli più olive, meno tagli meno olive! Invece una bellissima visione serale: gazzelle del deserto, che corrono leggerissime tra gli ulivi: loro non hanno soldati e coloni a porgli limiti.
Di venerdì nessun problema con i soldati, ma il sabato mattina, dopo aver fatto di nuovo un po’ di potatura, ecco i soldati, e non tre come l’ultima volta, ma questa volta ben quattro jeep e almeno una decina tra soldati e border police che scendono: “Ti ho già visto qui, ho già le tue foto, conosci la legge: lascia questa terra ai palestinesi!” Incredibile, lui a me! Questa volta purtroppo non lo ho registrato. Comunque dopo un po’ c’è davvero un colono che scende dove non deve e siccome fa troppe storie, lo vediamo risalire con i polsi legati, come in arresto: rarità gradevole. Per il resto, i coloni in gita non si sono visti, meglio così, e Jamal è sceso da solo col suo asino a caricare tutti i rami tagliati dagli ulivi. Ho provato a riscendere, ma di nuovo si sono mossi i soldati a dirgli che solo moglie e figli potevano aiutarlo.
Oggi si riparte con le olive. Prima di nuovo con Idris e Mohamed: è pieno di soldati sulla collina, ci fermano, ma dopo una telefonata a qualche comando ci dicono che possiamo aiutare; poi ci chiama Jawad: è autorizzato, ma solo per oggi, così ci portiamo li in quattro.
Finalmente ottengo piena fiducia per la potatura, e così io e Jawad sull’albero a buttare giù tanti rami carichi di olive e gli altri sui teloni a sfilare le olive. I soldati ci hanno visto arrivare, ma non hanno detto niente. Un albero in tre ore e mezza, con un centinaio di kg di olive e una potatura davvero ampia ed ariosa, per quello che si può fare su un olivo millenario con un tronco di quasi un metro di diametro! Si mangia di nuovo Makluba. Jawad, lo ammette, ne va pazzo, ed è proprio buona.
Dopo pranzo attacchiamo l’albero più vicino ai coloni, dove c’è la torretta dei soldati e i coloni hanno messo polli e pecore. Come prevedibile arriva la donna scatenata, quella sempre pronta a litigare: scambio di battute. E’ lei che ha più potere: chiama non solo i soldati, ma un corpo speciale che non ho capito.
Ci chiamano fuori: documenti. Non potete lavorare qui, solo la famiglia Abu Eisha può. “Ma mi hanno assunto come potatore”, dico io. “Non me ne frega niente, devono arrangiarsi da soli”. C’è anche Issa con noi, di Youth Against Settlements. Lui sa bene cosa è autorizzato e cosa no: “A meno che tu non abbia un documento per cui questa è dichiarata area militare, noi possiamo stare qui”, dice ai soldati. Ma è meglio farsi ridare i documenti e dire che ce ne andiamo.
Dopo un quarto d’ora, girando da dietro le case, rieccoci al lavoro: alla faccia di tutti i soldati. E anche se non bene come quello del mattino, l’albero è potato e le olive sono raccolte, smettendo al buio! Ai soldati avevo detto che non era possibile farsi comandare dalla colona arrabbiata (pare che è la sorella di Baruk Marzel): se stamattina andava bene, perché ora no?
Il servizio di Channel 2 sul blitz di martedì e le nostre interviste sono andati: tutti i commenti sono in ebraico, ma hanno nascosto le facce. Il clou deve essere stato quando dico che il sionismo è razzismo! Ma per il resto pare che hanno un po’ giocato ad allungare le pause o rilevare le esitazioni per presentarci un po’ impreparati, così dice Neta, l’unica che lo ha visto per intero, e hanno tagliato cose pericolose come quella su Mandela. Ora c’è il video sul loro sito, siamo riusciti a vederlo.
Al Khalil 20 ottobre 2012
Abu Sara
Questa volta mi hanno arrestato
Raccolta delle olive con Hashem: ci aspettavamo qualcosa, visto il posto e la vicinanza con i coloni cattivi. Ma prima della raccolta riceviamo una chiamata: ci sono soldati e ruspe di fronte a Qiriat Arba, un po’ più in là dell’insediamento con la stazione di polizia. Corriamo là, dopo avere detto a Hashem di aspettarci per dopo, chi a piedi, io e Wayd in taxi. Arriviamo sul posto: una ruspa e uno scavatore stanno finendo di demolire un serbatoio per acqua, protetti come sempre da decine di soldati.
E’ la seconda volta che la demoliscono, e anche la casa vicina, quasi terminata, ha un ordine di demolizione. “Eppure siamo in una zona di gente attiva, non di disoccupati, ci spiegano, ma non ci lasciano fare niente e distruggono i sacrifici di una vita”.
L’acqua poi a Hebron è una difficoltà, per cui farsi una cisterna di raccolta diventa spesso fondamentale. Ma non li: siamo nella zona che ancora separa le due colonie principali fuori Hebron, Qiriat Arba e Erfina. Vogliono tenere libero per i loro allargamenti e congiungimenti, ignorando e calpestando ogni diritto dei palestinesi, che ne fanno le spese.
La gente ci racconta volentieri, chiede se qualche organizzazione internazionale può collaborare a ricostruire.
Promettiamo di raccontare in giro e torniamo alla nostra raccolta.
Hashem è quello che insieme a noi ha riottenuto il diritto di percorrere la stradella più corta e che è riuscito a raccogliersi le sue olive l’ultima volta cinque anni fa. Oggi i soldati gli hanno dato di nuovo l’autorizzazione alla raccolta. L’idea è di lasciare qualcuno a finire da Jawad, dall’altra parte della strada, facendo come ieri: Jawad sulla strada con il mio seghetto che taglia rami (questo albero ha un diametro di un metro e mezzo!), e i nostri nascosti dietro il capannone a sfilare le olive. Così quando passa la donna scatenata, io sono sulla strada (regolare, quindi) che indico a Jawad cosa tagliare, la colona è tutta presa dalla scena, che sta riprendendo con videocamera, e non si accorge che sull’altro lato della strada ci sono già tre che raccolgono olive.
Quando il primo albero è quasi finito, passo al seghetto a sistemare la potatura, dicendomi che purtroppo, questo lavoro lo vedranno, è più rumoroso e visibile. Comunque, niente coloni in avvicinamento, polizia e soldati di passaggio non ci dicono niente, quindi, come scrivevo l’ultima volta, è proprio vero che prendono ordini dai coloni, e se questi non arrivano noi possiamo lavorare. D’altronde sono loro soldati che hanno autorizzato Hashem alla raccolta. Gli altri quattro alberi hanno poche olive: è divertentissimo come Hashem e i suoi, appena hanno un sacchetto di olive, corrono a portarlo a casa, temendo che un assalto di coloni gliele rubi.
Arrivo al quinto albero, vecchio, stranissimo, mezzo secco ma con due lati da cui è ripartita una grande vegetazione. Anche questo, come gli altri, non è mai stato potato, sono delle foreste da districare. Sono a metà lavoro, quando risuona il temuto allarme: “Mustautanin”, i coloni! Ne arrivano una quindicina, anche se non tutti insieme. Chissà dov’erano prima. Reclamano che la terra è loro, che stiamo rubando la legna, oltre che le olive. Intanto è arrivato anche Jawad, ed è lui che chiama i soldati a proteggerci dai coloni, dalla cui violenza non ci possiamo difendere, pena la galera. Io sono l’ultimo a lasciare la terrazza degli ulivi, tra l’altro con ancora in mano le mie “armi”, forbice e seghetto.
Intanto parlo degli ulivi, della pulizia, ma non gliene frega niente. Comunque Hashem è autorizzato a raccogliere le olive, anche se la contesa sulla proprietà non è risolta.
Finalmente arrivano i primi quattro soldati e si mettono in mezzo, ma più a spingere noi verso la casa di Hashem che ad allontanare i coloni invasori. I soldati aumentano. C’è un ufficialetto a nome Dima, che spesso spadroneggia e terrorizza nella zona. E’ lui ad arrabbiarsi di più, comincia ad avercela con tutti quelli che riprendono o fanno foto, e sono dappertutto. Ci sono i ragazzi di Youth Against Settlements, ci sono i nostri, c’è un fotografo che lavora per vari siti e che ho chiamato io. Dima si arrabbia e punta una volta uno una volta un altro, ma mai i coloni! Per primo viene preso un ragazzo di YAS, che riprendeva da dietro. Poi fanno per saltare su Wayd, lo acchiappano, ma io non perdo l’occasione di mettermi in mezzo, attaccandomi ad un palo, così ostruisco il passaggio e impedisco a Dima di procedere all’arresto di Wayd.
Incazzatissimo, si rifà con me, ma non riesce a staccarmi dal palo, si incazza di più perchè devono aiutarlo ad acchiapparmi. Ed eccomi buttato a terra e preso per il collo con un ginocchio nella schiena, mentre mi legano i polsi. Ma non gli basta, prendono anche Jawad, che li aveva chiamati e che non filmava né faceva altro. Hanno preparato il contentino per i loro amici coloni, che ridono felici mentre ci portano alle jeep. Un po’ di tempo in attesa, mentre si raduna una folla ad una certa distanza, è pieno anche di ragazze sui tetti che seguono e riprendono le scene.
Quando ci portano via, abbiamo abbassato i finestrini della jeep, abbiamo sporto le mani con il segno di vittoria e gridiamo “libertà per la Palestina”.

Ho scoperto la tenacia di questi palestinesi arrestati con me: non hanno smesso un attimo di provocare i soldati, e io mi sono dovuto adeguare.
La prima battuta è: “Che bello, da quanti anni che non potevo percorrere Shuada Street in macchina, oggi lo faccio addirittura con la jeep!” Arriviamo alla stazione di polizia di Qiriat Arba, vicino alla demolizione vista di mattina. Qui ci fanno accomodare in un container, che è un loro ufficio. Sedetevi. Non posso, dice Adham, che ha le mani legate dietro la schiena, mentre io e Jawad davanti. O mi cambiate la legatura ai polsi o non mi posso sedere. Saranno state due ore di battibecchi, con la scusa che non avevano altre cinghie: picchiami, tanto non ho la telecamera, ma non mi siedo, sparami se vuoi, tanto il fucile ce l’hai. “Ma sei sempre così arrabbiato, gli dico io, quando vai a casa cosa fai”?
Lo prendono in giro anche perché Dima in arabo è un nome femminile. Ma lui fa sempre il duro. “Hai visto troppi film”, gli dico io. “Ma come siamo contenti di stare qui e di vederti arrabbiato. Quando ci porti in prigione, così dormiamo un bel po’”? dicono i miei due amici.
Squilla il mio telefono, il soldato buono mi aiuta a sfilarlo di tasca, ma poi arriva Dima, me lo strappa di mano e lo spegne mettendoselo in tasca. Poi suona l’altro telefono (quello di coordinatore di Hebron), ma non provo più a rispondere. Finalmente il soldato gentile torna con cinghiette nuove e si può sistemare Adham con le mani davanti. Così si siede vicino a noi, su una specie di divano. Noi chiacchieriamo. Silenzio! Di peso mette Adham su una sedia contro un angolo, Jawad in un altro angolo, io prendo un’altra direzione. Silenzio! Invece ci mettiamo a cantare Unadeikum (è un po’ come cantare O bella ciao). Allora fuori, uno da una parte, uno dall’altra, io da solo dentro.
Passa il tempo. A un certo punto butta fuori anche me. Gli dico “non te ne andare senza restituirmi il telefono”. Passa un’ora: “mi sta venendo freddo, posso mettermi la camicia”? No, tieniti il freddo. In qualche modo il soldato gentile mi lascia mandare il primo SMS. Poi si capisce che ci sono i poliziotti indagatori: la prima deposizione che raccolgono è quella di Dima, poi tocca ad Adham, poi a Jawad. A questo punto, verso le sette, finalmente, ci tagliano le cinghie ai polsi, “allora posso andare a pisciare”?, “si”. E anche a bere. Grazie, era ora.
Un poliziotto con l’aria gentile si siede con noi (scopro poi che è quello dell’indagine). Parla arabo con fatica e non gli riesce di credere che io parlotto dopo solo sei mesi di permanenza qui. Gli dico: “Tutti i problemi vengono da quanto è incazzato Dima?” Non risponde, invece ci lascia fare le prime telefonate. Poco dopo chiamano anche me nell’ufficio investigativo. Prima la prima impronta: il poliziotto che mi porta parla ebraico o russo, beh, gli dico, pratiche KGB? Se io ero KGB tu ora saresti impiccato. No, caro mio, se eri KGB credo che impiccavi i tuoi coloni e sostenevi i Palestinesi!
Nell’ufficio investigativo è tutto tranquillo. Mi legge la deposizione di Dima: pretende di averci intimato di lasciare l’area, falso, e afferma che gli ho impedito di fare il suo lavoro. Correggo con la mia deposizione, e ammetto di aver impedito un arresto, c’è la chiamata di un avvocato a cui hanno pensato da YAS, che dice che la posizione dei palestinesi è meglio della mia, che ho intralciato il lavoro dei soldati. Comunque mi suggerisce di accettare la proibizione di stare nella zona per quindici giorni, così non ci rinviano a giudizio. E infatti, dopo un giro completo di foto segnaletiche e impronte di tutte le dita e tutte le mani, ci rimettono insieme e arrivano i nostri documenti. Siamo liberi! Scendiamo la ripidissima stradella abbracciati e saltellando. Fuori c’è già un fratello di Jawad che ci aspetta.
Andiamo a prendere un panino e mi accompagnano a casa, dove entriamo tutti e tre in trionfo: era il mio massimo desiderio, venire rilasciato insieme ai palestinesi e non come tante volte separatamente. Ora per due settimane non mi posso avvicinare a meno di duecento metri dal covo dei coloni a Tel Rumeida: peccato per le potature da finire e le visite ad alcune case. Vedrò come fare. Nel pomeriggio su facebook già girava un bel video con i coloni, i soldati e gli arresti!
Abu Sara da Al Khalil, 22 ottobre 2012
Non avere paura dei soldati
Altra giornata di manifestazione a sorpresa: anche noi non sappiamo niente, anzi, man mano che ci raccogliamo presso la sede del comitato popolare di lotta, consegniamo i telefoni, spenti, a un responsabile per gruppo. Vengono poi informati solo i responsabili di gruppo.
Si parte, con vari mezzi e un solo telefono per ogni mezzo. La destinazione ci viene comunicata per strada: si tratta di un supermercato vicino ad una delle solite colonie, su una strada percorsa anche dai palestinesi, a sud-est di Ramallah.
Quando arriviamo ci vengono restituiti i telefoni. Subito una perplessità: mentre stiamo per entrare nel parcheggio del centro commerciale ci supera una jeep dell’esercito. Esitazione, entriamo nel parcheggio e man mano che si liberano posti parcheggiamo i nostri mezzi. Ma i soldati sono ancora lì. Fanno shopping o ci aspettano? Finalmente si decide: non sono lì per noi e, o loro o il direttore, il tempo per l’arrivo dell’esercito non cambia molto.
Giù, tutti dentro, saremo un centinaio, carichi di bandiere palestinesi e di cartelli Boicotta Israele. Slogan: no all’occupazione, boicotta Israele, Israele è uno stato fascista.
Cassieri e clienti coloni ci guardano tra lo sbigottito e l’arrabbiato. Forse i commessi sono per lo più palestinesi, infatti non vedi nessuna opposizione: ma i clienti cominciano a guardarci male, anche se nessuno di loro batte un ciglio fino a quando non arrivano i soldati, e allora diventa evidente che vogliono la vendetta per questa azione.
Quando arriva l’esercito ci avviamo per uscire, percorrendo il parcheggio più o meno in corteo. Fuori c’è un’enormità di soldati. Anzichè lasciarci andare, ci bloccano, così bloccando anche tutto il supermercato. Credo che la loro operazione contro di noi ha tenuto fermo il supermercato molto più della nostra azione. Già davanti al supermercato provano a procedere ad arresti, ma per un pò resistiamo a fare quadrato e tenerci stretti quello che vogliono arrestare. Però riescono a dividerci in due gruppi. Di nuovo saltano su quelli più indietro, è evidente che hanno deciso di arrestare, non come la settimana scorsa sull’autostrada, quando ci hanno lasciato andare. La differenza è che qui hanno davanti la loro gente, a cui dimostrare che vanno giù duro, in autostrada nessuno li avrebbe visti punirci. Qui devono fare vedere ai loro coloni che sono cattivi e non perdonano. Noi ormai siamo sfilacciati e non c’è niente da fare. Puntano a due palestinesi, poi una ragazza e poi una seconda. Degli altri non si sa cosa vogliono fare.
Il primo arrestato è Bassem Tamimi, responsabile del comitato popolare di Nabi Saleh, da poco tornato in libertà. Le ragazze vengono afferrate da vari soldati e trascinate per terra. E’ notevole che la nostra partecipazione veda parecchi comitati popolari, da Hebron, da Al Masara, da Bil’in, da Nabi Saleh. I nostri mezzi sono ancora nel parcheggio, devono farli uscire loro.
Fuori ci spintonano con la loro solita violenza. Un po’ di bombe sonore, che fanno svenire uno, che andrà via in ambulanza. Vedo un primo gruppo già avviato per il deserto, costeggiando sotto la strada.
E’ allora che Issa, il coordinatore di Youth Against the Settlements, di Hebron, mi fa cenno. Ci stanno guardando troppo, sia io che lui abbiamo facce note a tanti soldati, buttiamoci anche noi giù nel canalone e poi vedremo. Siamo in tre, staccati da quelli che ci hanno preceduto. Notiamo che anche lungo la strada si sono sparsi un po’ di soldati: ci aspettano? Allora avanti, molto più lontano.
Noto che quelli che ci hanno preceduto in questa fuga dal deserto hanno attraversato la strada correndo e stanno salendo sulla collina di fronte. Poi vedo che alcuni soldati lungo la strada, stanno tornando indietro. Allora non ci daranno più la caccia? Continuiamo ad andare avanti, raggiungiamo due ragazzi che osservano il movimento, sono pastori di un accampamento locale. Proviamo a salire verso la strada, anche se ancora nessuno dei nostri mezzi ha lasciato il supermercato. Ma c’è una jeep di soldati ferma su una curva, appena ci vedono si mettono a correre gridando verso di noi: via di corsa, come al solito riusciamo subito a staccarli, ma hanno le jeep sulla strada, non hanno bisogno di correre, se ci aspettano al punto giusto. Avanti ancora. Stiamo per arrivare ad una delle colonie, ma al bivio che porta alla colonia ci sono sempre soldati. Anche da lì partono correndo verso di noi. Sembra un’ossessione: non c’è lato dove non veda soldati che partono subito contro di noi.
Issa riceve una chiamata. Corriamo indietro verso un punto dove abbiamo la strada molto più bassa di noi: bisogna buttarci dalla scarpata, se il tempo è calcolato bene ci possono raccogliere sulla curva. Ma io non ce la faccio a stargli dietro, gli altri due saltano sulla macchina e mi fanno cenno.
Quando arrivo giù io, però, sono partiti. Che faccio? Chiedo passaggi, si ferma un taxi, salto dentro, ma ormai è troppo tardi: una jeep di soldati sta venendo a marcia indietro verso di noi dalla strada, e anche sul costone dove correvamo è comparsa una jeep, da cui scendono due soldati che mi hanno visto: si fanno segnali e il mio taxi viene fermato.
Scendo gentilmente e dico “buongiorno”. Cinque soldati intorno e cinque sopra la scarpata. Mi sento perso, questa è la volta del rientro forzato e della black list. “Siediti. Documenti”. “Non parlo inglese”, dice il soldato. Allora arabo. Va bene. Poi un’idea: “qual è il problema? Sono qui dai miei amici pastori, con le loro pecore, come ho amici a Sussya, a At-Twani, stavo andando via”. “Perché correvi”? “Non mi piacciono i soldati, è più forte di me, scappo”. “Non devi avere paura dei soldati! (ma t’haf al jesh!) Vuoi un po’ d’acqua fresca?” “Grazie”. “Tutto a posto? Ti abbiamo ridato il passaporto?” Un cenno a quelli di sopra, nessun problema. “Puoi andare”.
Per un po’ ho camminato ancora nascondendomi, poi mi sono reso conto che veramente mi avevano creduto e non mi collegavano all’azione! Ho fatto il viaggio di ritorno a Ramallah su un service, dove ho continuato a ridere per lo scampato pericolo.
Il giorno dopo il mio arresto, scendevo tranquillamente al solito check point: “Allora non sei più trattenuto alla stazione di polizia?”, mi dice il soldatino di guardia. “Mi pare proprio di no!” Stavo andando a Gerusalemme, al consolato italiano, per un visto ad un ragazzo di YAS che deve venire in Italia. Una montagna di tempo con i mezzi, e anche qui, quando chiedi aiuto per trovare la strada o l’autobus giusto, sono piccoli bottegai arabi a rispondere gentilmente o aiutare, mai i soldati o gli israeliani. Di nuovo è il mio incerto arabo ad aiutarmi.
Al consolato non pare che sappiano del mio arresto, anche i nostri ISMers non ci tengono ad avvisare i consolati a meno che non diventi necessario.
Passo a Sheik Jerrah a verificare la situazione. Sempre contenti di vedere gli internazionali e soprattutto quelli più amici, ma non chiedono di ricominciare a passare la notte nella tenda: potrebbe essere presa per una provocazione e fare incattivire i coloni della casa occupata.
Al check point di Qalandia è successo qualcosa. Si parla di un possibile ordigno in una borsa. Saremo almeno in mille ad aspettare, tutti alla mercè dei soliti soldati. Anche un’ambulanza deve fare retromarcia (in mezzo a centinaia di mezzi). Finalmente decidono di farci passare da un accesso laterale per arrivare al quale dobbiamo percorrere almeno 500 metri. Dall’altra parte intanto ci stanno venendo incontro un mucchio di service, che man mano caricano la gente. E’ una cosa penosa questa dipendenza dagli umori dei soldati. Per l’Eid è di nuovo lo stesso.
Qualcosa rallenta il traffico e il passaggio al check point, e questo si ripercuote paurosamente sul lato della West Bank, dove colonne di macchine ferme obbligano i mezzi pubblici e privati a delle rocambolesche gimcane attraverso discariche e cave di pietra, se vogliono arrivare a destinazione in tempi accettabili. C’è un movimento di gente incredibile: la festa sarà di quattro giorni, a partire dal venerdì, ma già mercoledì addirittura mancano i mezzi per spostare tutti quelli che vogliono raggiungere le famiglie. Non c’è un mezzo che da Ramallah vada a Hebron. Insieme ad altri, dobbiamo fare il tragitto in due tratti, prima fino a Betlemme e poi da lì per Khalil. Giovedì gli spostamenti vanno meglio, almeno per me che vado a sud. Venerdì non c’è nessun movimento, e sabato ricominciano i viaggi e i casini.
Ho deciso di fare le feste come i palestinesi. Giovedì qualche acquisto, Sanah da Sussya mi ha fatto sapere che non ha quasi più bicchieri, ma è pazzesco il via vai di gente da tutte le bancarelle. Tutta merce cinese, dai giocattoli al vestiario, accessibile a tutti, ma di qualità pessima, roba che si butterà via prestissimo: a chi conviene? Non certo ai lavoratori sfruttati cinesi. Una confusione indescrivibile, montagne di immondizia buttate dappertutto, muoversi con i mezzi è quasi impossibile. Coda dal barbiere, da cui di solito non c’è nessuno, anzi spesso lo trovo che dorme. Mentre aspetto c’è chi mi chiede della mia liberazione, e ci sono i soliti bambini con cui giocare.
Finalmente mi avvio per Sussya. E’ la famiglia a cui sono più legato, con cui voglio fare l’Aid.
Per strada una nuova tappa, in una casa dove non mi ero ancora fermato, per the e frutta.
Da Jamal, a parte il piacere reciproco, non c’è molto di diverso: le pecore devono mangiare, il bucato si deve fare, i pavimenti si devono lavare, la cena si deve cucinare. Però finalmente riso e pecora, non riso con patate o pomodori.
Un’altra acquisizione delle mie ore di detenzione: Jawad, sempre sfottendo il soldato cattivo, gli aveva detto: “Tienimi qui, per favore, lo sai che per l’Aid abbiamo l’abitudine di regalare 50 shekel a ogni donna della famiglia, e io che ne ho quindici rischio di rovinarmi!” Nello stesso modo anche io mi sono presentato nelle famiglie dove sono andato con un po’ di soldi per le donne della casa. Jamal allora è corso a Al Karmil a comprare giocattoli (cinesi) per i bambini, pistole ai maschi e bambole alle bambine. Tutte cose rumorose, fino a esaurimento delle batterie. Ma almeno erano molto contenti. Sempre un po’ di lavoro sugli ulivi, ma mi lasciano solo sfoltire un po’ di rami, quanto serve per far mangiare del verde alle pecore. C’è sempre la paura che taglio troppo, gli pare che un ramo per albero sia già troppo, mentre è solo un taglio che mette un po’ di aria al centro dell’albero.
Di venerdì mi chiama Maia, di ritorno da Gaza, che sta venendo a At-Twani con il gruppo di Al Masara. Ci mettiamo d’accordo per andarla a prendere ad Al Kharmil. A Jamal compro un po’ di benzina, messa in bottiglie di plastica da un commerciante del paesino. Riceviamo Maia con gioia. E’ più bello essere in due con la famiglia di Jamal, ma mi ero un po’ stufato di portarmi dietro qualcuno che non mastica per niente l’arabo, per cui, anziché imparare qualcosa di nuovo, finivo sempre a fare da interprete per le solite frasi semplici.
Anche Maia è di casa a Sussya, e Sanah si lascia aiutare volentieri.
Sabato mattina portiamo le pecore vicino alla fantomatica “antica sinagoga”, dove la famiglia di Jamal ha un altro pezzo di uliveto parzialmente espropriato per la recinzione della sinagoga. Anche qui Jamal ha paura che tagli troppo e poi sgridino lui. Qualcosa taglio, poi rientriamo presto, è pur sempre festa! Sotto l’accampamento ci sono famiglie nuove a raccogliere olive. Alcuni pezzi non sono dei nostri amici, ma di famiglie di Yatta. Con anche Jamal scendiamo ad aiutare un po’, sia a potare che a raccogliere olive.
A metà mattina sospendiamo per rientrare. Maia va a Gerusalemme a raggiungere la sorella prima di ripartire, io vado a Nablus da Neta e Nizar, che hanno la famiglia di Nizar là.
I racconti da Gaza sono terribili: colonne di carri armati quasi quotidianamente entrano a fare un giro di terrore. Continuamente ci sono sorvoli di aerei da guerra e qualche attacco mirato che lascia sempre vittime civili. La gente vive nel terrore, con acqua ed elettricità misurate, sempre più chiusa e senza fidarsi di nessuno. Si vanno a prendere secchi di acqua anche dal mare. Le lucine delle barchette da pesca sono vicino a riva e subito fuori si vedono le navi da guerra israeliane che incrociano.
Come alcuni mi hanno detto: basta problemi, ora è festa!
Eccomi a Nablus, con la mia altra famiglia e quelle carissime bambine, ancora più affettuose dopo il regalo.
Siamo nella città vecchia, in una casa di fronte ad una antica sorgente che dava l’acqua a un vasto quartiere e a una fontanella nella casa della famiglia di Nizar. Nizar e le ragazze sono dalla sorella, io giro per un po’ con Neta.
Finalmente sabato faccio un po’ il turista, con Neta e due ragazze di ISM a Sebastya, una antica città su una collina non lontano da Nablus.
E’ il terzo giorno della festa, che si dedica anche a gite fuori porta. Infatti a Sebastya troviamo famiglie in gita o con il pic nic. Si parla della capitale di Samaria, che prima era dei Cananei. Occupata dai fenici, dagli assiri, dai babilonesi. Le mura che si trovano ora sono del periodo romano, come una strada a quattro colonnati, coperta sui due lati, evidentemente per commerci. La collina è stata allargata per ingrandire la città, mentre molto più interno era un giro di mura precedenti ai romani. Anfiteatro notevole, appoggiato alle mura più antiche, e nel paesino tuttora esistente la moschea è sulla base di una basilica dove si racconta fu tenuto Giovanni Battista prima della decapitazione. Insomma, un mucchio di storia e nessuno sfruttamento turistico: come sarebbe possibile in una terra occupata?
Al rientro ad Al Khalil il solito check point: “dove vai”? Io esito un attimo, è uno nuovo che non mi conosce? Macchè, sa tutto: “mi raccomando, a casa di corsa, senza fermarti, lo sai che hai duecento metri di distanza da tenere. Lo so, vai a quella casa dopo la barriera, davanti alla torre, dove state tutti quelli che volete cambiare il mondo” (sanno un po’ troppo di noi).
Quarto giorno di Aid: il mercato è pieno di palestinesi che comprano. Conferma che le donne hanno avuto regalati soldi e che ora possono spendere. Spiegano che è anche una forma di riequilibrio: si può dare più soldi a chi ha più bisogno e nessuno si offende di ricevere soldi.
Al Khalil 29 ottobre 2012 Abu Sara
Quando decido di andare a salutare a Sheik Jerrah, c’è stato un altro momento di panico, al prossimo temo non reggerò così bene: da Ramallah prendo i mezzi per scendere a Sheik Jerrah, cosa che non ho ancora fatto quest’anno. Le altre volte sono salito da Hebron, entrando a Gerusalemme con l’autobus di linea da Betlemme.
L’autobus viene fermato al check point e salgono due soldati a controllare velocemente i documenti: nessun problema. Ma ora devo passare da Qalandia. L’autobus si ferma dalla parte palestinese, poi c’è il passaggio dal check point, con i suoi tornelli e le grate tipiche da situazione di apartheid, poi si riprende un bus di là. La borsa viene infilata nel metaldetector, passiamo pure noi da questo, il documento viene esibito aperto, appoggiandolo al vetro. I soldati nel loro ufficio al di là del vetro guardano la foto, poi chiedono la pagina col visto, poi ti dicono ok. Questo almeno è quello che mi è sempre successo l’anno scorso, ma oggi, che sono fresco di arresto e che ho firmato che non sarei venuto in West Bank, i soldati mi dicono di entrare in uno stanzino e di consegnargli il passaporto. I battiti salgono terribilmente, cerco di fermare il tremito: mannaggia, farsi beccare proprio ora, solo perché volevo andare a salutare gli Al Kurd! Perché un errore così stupido?! Cominciano a turbinare pensieri nella testa, messo in lista nera a tre giorni dalla partenza, cosa potrò fare per rientrare? Pian piano mi calmo, tanto non c’è niente che possa fare: possibile che di colpo i loro uffici hanno collegamenti funzionanti tra di loro e c’è qualche allarme su di me? Mi aspetto il peggio. Dopo un quarto d’ora: “Signore, tutto a posto, può andare”. Un’altra volta così e vado in corto circuito.
Ma quando ho riprovato a entrare nel 2013 era questo passaggio che era segnato, era la prova che ero stato In West Bank: qualunque cosa avessi risposto sarei stato cacciato, o perché mentivo sulla mia presenza in West Bank, o per aver tradito l’impegno che avevo firmato a non andare in West Bank.
A Sheik Jerrah è tutto tranquillo, degli occupanti c’è solo il cane, ma pare che non abbaia neanche più. Nabil è a un incontro del comitato di lotta, ma, appena lo chiamano, arriva. Un the e ci raccontiamo un po’ di cose: secondo lui, ogni nostra presenza alla tenda è importante, se causa casino è proprio perché i coloni non ci sopportano e siamo noi a rappresentare il loro abuso davanti al mondo.
A Beit Ommar per la manifestazione del sabato vengo a sapere di una notte di fuoco.
Tre giorni fa sono venuti ad arrestare una persona: sono venuti di notte, come fanno spesso, e gli hanno intimato di uscire di casa. Non ha obbedito. Mentre arrivava una ruspa, hanno cominciato con le bombe sonore, poi con i lacrimogeni. Poi le bombe vere, poi la ruspa ha iniziato a demolire un muro esterno.
A questo punto arriva la chiamata dell’imam dal minareto: c’è bisogno di aiuto. Sono saliti tutti sui tetti e hanno cominciato a bersagliare di sassi le forze di occupazione. Ne è nata una battaglia a tutti gli effetti, che si è protratta per quattro o cinque ore. Finalmente sono riusciti ad arrestare questa persona che cercavano, uno che ha già scontato 18 anni in carcere. E’ sicuro che i danni subiti dai mezzi dell’assalto sono notevoli, e ora la gente teme che torneranno a fare degli arresti punitivi con la motivazione che hanno visto chi tirava sassi. Rimane certo che la casa assalita è mezza demolita.
La manifestazione è stata più viva del solito per la presenza di tanti ragazzi, più bambini che ragazzi. Tanti internazionali, vari israeliani, pochi palestinesi adulti. I ragazzi si divertono a infilarsi tra i soldati, a raggrupparsi dall’altra parte, a fare correre i soldati per prenderli o almeno scavalcarli per rimandarli indietro. E’ un gioco pericoloso. Questi soldatacci non vanno tanto per il sottile e hanno alle spalle come spettatori un gruppo di coloni a cui devono dimostrare di essere seri e cattivi. Non ci vuole niente perché succeda qualcosa, e ne pagherebbero le conseguenze i ragazzi.
Ad ogni modo tutto finisce bene, anche se bisogna trattenere i ragazzini dal tirare sassi come gran finale.
Vado a salutare il mio amico Nasri, che mi trattiene per la serata. Prima ho raggiunto Yousef, uno degli organizzatori di qui, che annuncia la creazione di un nuovo comitato popolare che dovrà collegare i due che c’erano prima. Speriamo che sia vero.
Quando Nasri arriva dall’università, è lì che mi viene a prendere.
Da lui è come sempre un via vai di gente, tutti lo cercano. Anche se avrebbe voluto un giovane al suo posto, è stato rieletto “Rais”, sindaco. Oggi tutti si interrogano sulle dichiarazioni rinunciatarie di Mahmoud Abbas, che rinuncia alla casa da cui è venuto per riconoscere la Palestina solo nei confini del ’67. Rinuncerebbe così al “diritto al ritorno”, sancito da delibere ONU. Ma si sono alzate dovunque voci di dissenso: “che parli per sè, non per i palestinesi!”
4 novembre 2012
Domenica ho cominciato a passare le consegne a quelli che rimangono dopo di me. Ci sono famiglie da andare a ritrovare, vedere se ci sono novità intorno alla casa venduta e sotto Kiryat Arba. Ci sono anche i problemi nuovi che stanno emergendo: i compagni che lascio avranno un bel po’ di grane.
La prima che proviamo ad affrontare domenica riguarda una famiglia che ha avuto uno strano ordine militare: con allegata tanto di cartina che indica la loro casa, c’è un ordine in arabo ed in ebraico pressoché incomprensibile.
Nick è andato ad un incontro con un avvocato, ma l’unica cosa chiara e preoccupante è che vogliono maggiore controllo sull’area. L’area è quella della collina di Tel Rumeida, dove già la presenza dei coloni rende la vita difficilissima ai palestinesi. Comunque il nostro avvocato sta preparando una opposizione, che deve essere presentata entro 5 giorni.
E’ la prima volta che oltre alle mie frasi semplici, usiamo un i.phone con google traduttore, che gli ripete e scrive in arabo comprensibile le frasi un po’ più difficili. Io non ero ancora andato a trovare questa famiglia, che è nel perimetro del mio divieto, ma questo ormai sta scadendo, inoltre è buio, e così vado anche io. Non dico la felicità della famiglia a vedere anche me, “Abu Sara!” Cinque bambini, che mi conoscono benissimo, anche la moglie mi saluta con affetto.
Questo rapporto costruito con gli abitanti di Hebron rimarrà nei miei pensieri, faccio ancora fatica a rendermene conto bene. Ma quell’ordine militare riguarda anche altre quattro famiglie, di cui un’altra nella nostra zona. I nostri hanno già una torretta militare sul tetto! Come previsto, un altro the, che segue i due precedenti!
Pare che gli ordini militari siano incomprensibili per rendere sempre più difficile la opposizione e dare quindi mano libera all’esercito. I miei compagni vedranno gli sviluppi.
Si tratta della casa di Imad Abu Shamsiya, il Palestinese diventato famoso per avere filmato proprio vicino a casa sua l’assassinio di un ragazzo già ferito, che viene ucciso a sangue freddo, il 24 marzo 2016.
La mattina dopo, quando alle sei due si preparano per andare ad accompagnare a scuola i bambini, arriva anche una chiamata dai ragazzi di Operazione Colomba: è il primo giorno in cui il “telefono di Hebron” non è più in mano a me: “Vari mezzi da demolizione e jeep militari si stanno preparando al bivio per Um al Kher”.
Due partono per le colline a sud. Con me invece, e con più calma, vengono in tre. Andiamo a raccogliere le olive da Hani, fratello di Hashem, là dove mi hanno arrestato.
Per me sono passate due settimane, quindi vado proprio sotto una torretta e un soldato di guardia, che non mi dice nulla. Credo che faccia parte dei nuovi, per cui non sa del mio divieto. Mi spaventa invece un altro soldato, che mentre gli passo davanti mi chiama “Philippe, Philippe”. Io non capisco e continuo. Poi mi fermo: “chiami me?” “si – mi dice – non sei Philippe, quello dell’intervista su Channel 2? Avevi la faccia oscurata, ma sei tu”. Sul sito della TV c’è la trascrizione dell’intervista in ebraico, e io vengo indicato come un attivista a nome Philippe. Quindi mi riconoscono, ma non come quello dell’arresto e del divieto, ma come quello della TV. Ritengo molto probabile che nelle caserme quel video sia stato usato come scuola su cosa pensano i cattivi internazionali!
Mi viene un colpo. E se domani anche al Ben Gurion mi riconoscono comunque?
Intanto raccogliamo olive, e poto anche. Qui gli alberi sono stati curati ogni tanto, anche irrigati quest’estate, ma i tagli fatti sugli alberi sono proprio brutti. Però da quando io parlo di curare gli alberi, credo che in tanti si sono smossi e hanno pulito almeno le erbacce e deciso di riprendere in mano queste terrazze, anziché sentirsi solo minacciati dai coloni. E’ come se la mia presenza avesse fatto scattare un moto di dignità e di riappropriazione! Penso che è stato questo rapporto con la terra a fare scattare il grande legame con la mia presenza ad Al Khalil.
Il soldato ci guarda e non dice mai niente, due ragazzini dei coloni si affacciano a guardare, Hani li sgrida e anche il soldato gli dice: “via di lì”.
Anche oggi gli alberi che riprendono forma e aria piacciono a tutti, ma non finiamo il raccolto.
Io devo ancora vedere della gente e due dei miei compagni sono dovuti correre via a metà giornata: vicino a Kiriat Arba un attacco di coloni ha abbattuto una serie di ulivi con le motoseghe, in un posto dove c’erano stati attacchi anche l’anno scorso. Come possono questi coloni dire che vogliono questa terra, quando distruggono quello che c’è di più caro e tradizionale, cioè appunto gli alberi di ulivo?
Tornano i due che erano andati a seguire i demolitori: oggi è stata la DCO (la polizia che deve curare i rapporti con i locali) a fermare una demolizione, probabilmente solo per rinviarla, ma intanto per oggi non è successo niente.
Io vado a salutare alla casa di Youth Against Settlements, dove questa sera ci sono lezioni di spagnolo e di inglese. Trovo tutti e due i miei compagni di detenzione e vari altri amici da salutare: di nuovo si parla di ulivi e di come curarli.
Martedì è il giorno della mia partenza, ma alle sei c’è di nuovo la chiamata per la demolizione. Sapremo poi che in due villaggi sono state rase al suolo completamente delle case quasi terminate, questa volta non tende o cisterne, ma vere case in cemento armato. Eppure non avevano avuto ordini di sospendere i lavori o cose simili. Non c’è niente da fare, dove ci sono insediamenti palestinesi, le forze di occupazione vogliono realizzare zone di esercitazione militare.
Ma io devo partire, anche se sono giorni di avvenimenti convulsi.
7 novembre 2012
13) Dopo il macello di Gaza
Pochi giorni dopo il mio rientro in Sicilia dalla West Bank, è cominciato il macello a Gaza.
Purtroppo ce lo aspettavamo, chi era a Gaza ci raccontava delle quotidiane invasioni di carri armati nella striscia, dell’incessante rombo dei droni in cielo. Poi lo stillicidio dei morti. Eppure ufficialmente eravamo in periodo di tregua. A ricontarli dopo, da gennaio fino ai primi di novembre, i palestinesi ammazzati a Gaza sono stati 78, alla faccia della tregua!
Ma ora i morti aumentavano, il ritmo delle incursioni cresceva. Era evidente che gli israeliani volevano la guerra e volevano una reazione palestinese che gli permettesse di dire: “hanno cominciato loro”.
Prima hanno ucciso un ragazzo portatore di handicap, poi un carro armato ha sparato in un campo di calcio ammazzando un ragazzo, il giorno dopo altri due ragazzi che giocavano a pallone. Eppure Ahmed al Jabari trattava insieme agli egiziani per ristabilire una tregua. E allora cosa fanno quelli che “vogliono la pace”? Eseguono un omicidio mirato per eliminare Jabari, nello stesso modo in cui avevano assassinato altri mediatori di tregua prima dell’operazione “piombo fuso”.
Mai guerra è stata cercata come questa. E la ragione? Di nuovo elettorale, come anche cinque anni fa. A gennaio in Israele si vota e bisogna dimostrarsi garanti della “sicurezza”, poco importa la morte di qualche centinaio di palestinesi o i danni per miliardi di dollari, Obama appena rieletto garantisce comprensione per Israele, il solito mondo occidentale e i suoi canali di informazione crederanno come sempre alla storia dei palestinesi terroristi.
Non c’è modo di raccontare le stragi di innocenti e la distruzione di Gaza. Forse i video che hanno girato fanno vedere un po’ della realtà, ma li hanno visti sempre in pochi. Il terrore in cui da anni vive la gente di Gaza non è descrivibile, gli incubi che donne e bambini continueranno ad avere per chissà quanto tempo non sono immaginabili. Già in Europa si parla dei morti, sono ben 166 in cinque giorni, ancora meno si parla dei danni: i bambini sono tornati a scuola, ma quasi tutti gli edifici scolastici sono distrutti o hanno avuto danni. Lo stesso vale per gli impianti produttivi: le bombe israeliane hanno annientato il fragile apparato industriale di Gaza.
Eppure a Netanyahu qualcosa è andato storto. Il Washington Post durante i bombardamenti ha messo in prima pagina la foto di un padre gazawi disperato con in braccio un bambino morto. Non era mai successo, in sessanta anni che gli israeliani ammazzano bambini palestinesi. Ma evidentemente la storia dei palestinesi terroristi comincia a non funzionare più.
Inoltre sia la Turchia che l’Egitto si sono mossi in modo ben diverso rispetto a cinque anni fa. Sembra che chi comanda è vicino alla corrente islamica di Hamas.
Sarà questo, sarà un vento diverso che soffia dopo le primavere arabe, fatto sta che Gaza, prima e anche durante i bombardamenti, ha ricevuto visite importanti. Hamas diventa un interlocutore accettato in buona parte del mondo. E poi, nessuno avrebbe immaginato che i razzetti sparati dai soliti estremisti sul sud di Israele si trasformassero, come è avvenuto, in razzi che arrivano fino a Gerusalemme e Tel Aviv. E’ vero che i costosissimi sistemi antimissile israeliani funzionano, ma è vero anche che Netanyahu anziché sicurezza ha portato le sirene di allarme su Tel Aviv per giorni e giorni. Ha minacciato l’invasione di terra ma ha avuto paura di farla, è riuscito a far ammazzare tanti civili e donne e bambini ma non a fermare i razzi su Tel Aviv. Ha dovuto accettare la tregua. Dice di avere raggiunto i suoi obiettivi, ma mi pare che non gli creda nessuno.
Chissà che non succeda invece che sia obbligato a pensare alla trattativa anziché al massacro.
I soldati israeliani già il secondo giorno di tregua hanno aperto il fuoco lungo il confine con Gaza uccidendo un contadino e ferendone tanti: nonostante ciò, gli accordi di pace durano e i palestinesi tornano a coltivare nella cosiddetta “buffer zone” lungo il confine (la zona cuscinetto a cui hanno vietato l’accesso), e tornano a pescare fino a 9 km dalla costa, non ancora come previsto dagli accordi di Olso, ma qualcosa è cambiato dalle cannonate ai pescherecci oltre le tre miglia, come fino a pochi giorni fa. Inoltre, i bombardamenti israeliani e l’accanita resistenza palestinese stanno spingendo di nuovo verso l’unità di tutti i palestinesi. Fatah e Abbas sono costretti ad accordarsi con Hamas se vogliono risalire un po’ nella stima popolare, soprattutto a Gaza.
Saranno segnali di speranza?
Alcamo 27 novembre 2012 Abu Sara