Tel Rumeida è la collina che domina il centro spettrale di al khalil. Spettrale perché quello che era il mercato centrale è tutto chiuso sprangato con le porte metalliche saldate, e spettrale perché ci girano dei soldati che sono gli stessi mostri che macellano i bambinə palestinesi a Gaza.
Il sabato pomeriggio c’è la passeggiata dei coloni nel centro storico. Prima di loro un nutrito gruppo di soldati armatissimi gli apre la strada e gli garantisce la sicurezza, piazzandosi su tutti i lati. Mi pare che, con le armi spianate, ci tengono ancora più a distanza di come fossero soliti fare. Si sono anche fatti aspettare, eravamo un gruppo di ragazzi, qualche giornalista e noi internazionali.


Finito il tour si ritirano oltre i loro cancelli, e io con una ragazza americana, come promesso, vado a trovare l’amica nel cui giardino sono stato arrestato anni fa, quando raccoglievamo olive. Dobbiamo girare dalla deserta Shuada Street, e inerpicarci sulla collina, tra il cimitero arabo e le case palestinesi. Poi c’è la sorgente di Abramo e gli ulivi plurisecolari. Alla fine un percorso tra erbacce e discariche, l’unica via per accedere alla casa, finalmente arriviamo. Sotto c’è il check point da cui anche noi usciremo: i palestinesi residenti nell’area che sono tutti forniti di numero di riconoscimento, possono usarlo anche in entrata. Ma l’accesso alla casa è quello fatto da noi. Tutte le vie comode sono precluse, per l’accerchiamento compiuto dai coloni. Qui, proprio sopra la casa, è iniziata l’occupazione della collina, nell’ 86, con i primi camper.
Nisreen ha tanto da raccontare, i soprusi dei coloni e dei soldati, soprattutto durante le numerose feste ebraiche, quando molti coloni in più si aggirano tirando sassi a casa loro, e loro hanno l’obbligo di fare un giro molto più lungo per arrivare a un check point molto più in alto. Poi la morte del marito, medico e attivista, morto per un leggero infarto, senza ambulanza possibile, e con l’aggiunta complicazione dei lacrimogeni che i soldati stavano sparando davanti al check point. Anche da vedova non se n’è andata, è rimasta lì con i quattro figli. Ricordo e la faccio sorridere, che la maggiore si è sposata in Giordania.
Dipinge, ora anche su borse, che sono più facili da vendere. Ma, nonostante tutte le sue difficoltà, continua a dire che è Gaza la nostra priorità.
Al check point dell’altro giorno c’è di nuovo casino, con la scusa di un guasto al tornello bloccano tutti, c’è anche il preside a reclamare, ma non c’è niente da fare, chiudono anche gli altri due check point più vicini e la scuola viene sospesa. Veramente la tranquillità non può esistere per questa gente.


Vedo un autobus per Beit Ummar, e mi viene l’ispirazione: telefono a Abu Maria, altra vecchia conoscenza, “you’re welcome to my home”, è la risposta immediata, e vado a cercare il prossimo bus. Beit Ummar è un paese poco più a nord, di fronte al campo profughi al-Arroub, ma tutto in area C (controllo israeliano) e poco in area B (controllo misto). Sull’autobus chiedo aiuto a un ragazzo, ma non sa niente di inglese, però smanetta sul telefono, così seguiamo il percorso del bus e racconta che non gli era mai capitato un incontro come quello con me ieri, poi di colpo l’autista mi chiama, è la mia fermata, scappo senza quasi salutarlo…
L’associazione al-Shorouk funziona sempre, per il Ramadan hanno preparato pacchi per le famiglie povere, hanno stabilito contatti in Olanda, mandando i loro prodotti Fair Trade e raccogliendo aiuti per Gaza. Ma si fa tardi, entrare a Beit Ummar alle tre era facile, ma per uscire potrebbe essere già scattato il coprifuoco, con la chiusura di tutte le uscite stradali. Un amico mi viene a prendere, via di corsa, ecco un gippone di traverso alla strada e soldati col mitra in mano che stanno chiudendo il cancello, ora non si entra e non si esce. I soldati però sono gentili uno, fiero di parlare in inglese, chiede cosa faccio, vengo a trovare amici, ok divertiti. Sulla strada principale, un service che deve scaricare i suoi passeggeri alla sbarra, mi porta a Halhul, frazione nord di al Khalil, poi un taxi collettivo mi porta a casa.